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Siamo nati per soffrire?

La sofferenza è un tema centrale della Psicologia moderna che se ne occupa fin dai suoi albori nella seconda metà dell’Ottocento. Questa centralità è dovuta al fatto che la sofferenza connota la condizione umana in maniera assolutamente specifica: noi esseri umani condividiamo con tutti gli animali il processo sensoriale della nocicezione, ma solo con le specie più evolute condividiamo la sofferenza e siamo gli unici a provare angoscia esistenziale. In altre parole noi come qualsiasi specie animale sentiamo il dolore, ma siamo la specie che sperimenta la forma più acuta di sofferenza: siamo gli unici a poter soffrire per il solo fatto di renderci conto di esistere. Per meglio dire, siamo l’unica specie passibile di sofferenza per il solo fatto di scoprire, anche abbastanza presto, che presto moriremo!
La sofferenza umana, infine, si connota per avere un legame molto esile con il dolore: nella stragrande maggioranza dei casi la nostra sofferenza non è dovuta ad un dolore, ma solo alla nostra stessa reazione ad uno stimolo o ad una situazione che può essere tanto esterna quanto interiore. Credo lo spieghi molto bene il filosofo israeliano Yuval Harari, quando descrive gli iperbolici sviluppi della scienza e della tecnologia che ormai sembrano ad un passo dal donarci amortalità, felicità e divinità1: saremo comunque prede della depressione, perché, avendo raggiunto la “vita beata a tempo indeterminato”, il minimo rischio di perderla per un incidente ci getterà nell’ansia più acuta.

La sofferenza umana non è collegata, quindi, direttamente al dolore, come in tutti gli altri animali, ma quasi sempre è una reazione ad una nostra rappresentazione mentale. Già Freud, ormai un secolo fa, capì che la sofferenza generata dalle nevrosi era dovuta a quelli che chiamava “meccanismi di difesa”:

“I meccanismi di difesa sono funzioni dell’Io del soggetto destinate a proteggerlo dalle richieste istintuali eccessive dell’ES o da un’esperienza pulsionale troppo intensa percepita come pericolo”.2

La nostra reazione a questi fenomeni psichici profondi ci fa star male a prescindere dal contesto reale tant’è vero che lo stesso contesto reale fa soffrire alcune persone, mentre lascia serene tutte le altre oppure ciò che una volta ci lasciava indifferenti, può diventare inaspettatamente una fonte di sofferenza, sia essa ansia, depressione o un altro dei disagi psicologici che oggi imperversano e tanto anche tra i giovani.
La sofferenza negli esseri umani si origina da quello che la professoressa Daniela Lucangeli chiama “corto circuito emozionale”:

Daniela Lucangeli ha sviluppato un nuovo concetto, il cortocircuito emozionale, per descrivere “situazioni di difficoltà emotiva, paura e dolore che rendono difficile l’apprendimento, in particolare in chi abbia un’infanzia problematica”.3

E ancora:

“L’emozione ha una grande influenza sul comportamento cognitivo, è il grande decisore perché è più potente del sistema cognitivo. Non possiamo controllare tutti i nostri comportamenti con la mente, perché le emozioni positive e negative prendono il sopravvento. Paura, senso di colpa, ansia incidono sulle capacità di apprendimento e con il tempo si può dimenticare ciò che si è imparato, perché la mente tende a fuggire dalle esperienze e dai ricordi dolorosi. È necessario superare il cortocircuito emozionale, neutralizzare le emozioni negative (es. paura e senso di colpa).

La professoressa Lucangeli ha applicato il concetto di cortocircuito emozionale prevalentemente alla scuola dove si osserva il fondamentale rapporto educativo tra docenti e alunni per il quale propone un atteggiamento e un metodo da seguire.

Suggerisce metodi dolci per neutralizzare “le due emozioni più faticose, che sono la colpa e la paura”[…].
“Trenta secondi di abbraccio producono nella nostra amigdala un ormone, l’ossitocina, che è quello che permette alle partorienti di resistere al dolore del parto” prosegue Lucangeli. “La carezza, come circuito neuroelettrico di messaggio. L’abbraccio, come meccanismo che ci dà conforto, produce positività, forza.” Gesti che determinano picchi hertziani a livello di sistema neuroelettrico del cervello.
“Basta una goccia di emozione positiva” spiega Lucangeli, “e si registrano dei picchi, alti e brevi, mentre le emozioni negative sono onde basse e lunghissime. Semplicemente: un attimo di gioia è intenso intenso intenso ma breve breve breve. Perché? L’intensità traccia la memoria, ed è breve perché il cervello andrà in cerca di altre sensazioni positive, altre gioie. Al contrario, un attimo di paura, è lunghissimo…la paura ha il compito di farci scappare, di dirci ciò che ci danneggia, ci dà dolore…e il cervello dice scappa!, non ripetere, non apprendere, dimentica.” Dimenticare è la grande fuga del cervello davanti alla sofferenza.4

Mi sembra evidente che tutta questa riflessione si possa traslare a tutte le relazioni educative. In particolare i genitori tengano presente i target che si vogliono contrastare ossia la colpa e la paura, le rappresentazioni mentali più potenti generatrici di sofferenza in tutti gli esseri umani. Quando queste emozioni negative “assediano” la mente dei nostri figli, dobbiamo metterci in allerta perché la sofferenza che sperimentano, è reale ed è in agguato una conseguenza gravissima, quella fuga davanti alla sofferenza che può prendere la forma dell’internet addiction, della dipendenza da sostanze psicotrope o dell’hikikomori.
Come ho già avuto modo di dire in altri articoli di questo blog, è fondamentale intervenire sul senso di autoefficacia dei nostri figli. In questa occasione riprendo le parole della stessa professoressa Lucangeli.

Un grande della psicologia, Albert Bandura, ha elaborato e studiato il concetto di autoefficacia. Con questo termine si riferisce ai pensieri delle persone sulle proprie capacità: Bandura è fortemente convinto che la percezione di efficacia che i diversi individui hanno rispetto alle proprie capacità sia strettamente collegata ai loro pensieri, alle loro emozioni, alla loro motivazione e al loro comportamento. Chi si percepisce efficace affronta i compiti difficili con la consapevolezza di poterli completare con successo e non come qualcosa che preferirebbe evitare; quindi è più portato a perseverare anche di fronte a degli ostacoli. Ma come si può aiutare uno studente [o un figlio, ndr] a costruirsi una percezione positiva di autoefficacia?

Per suscitare la fiducia in sé in un bambino innanzitutto è importante aiutarlo a sperimentare il successo soprattutto nelle prime fasi dell’apprendimento, momento in cui i pensieri su di sé sono in fase di costruzione. I successi però non devono essere troppo facili da ottenere, ma devono richiedere una dose di impegno: ogni bimbo dovrebbe avere la possibilità di affrontare e superare delle barriere, in modo che possa capire che il risultato si ottiene solo grazie a un impegno continuo. Essere consapevole di avere ciò che serve per raggiungere dei traguardi lo aiuterà in futuro a perseverare nelle difficoltà e ad affrontare gli ostacoli che si presenteranno.
Io consiglio quindi che quando si imposta un’attività didattica o un compito si propongano ai bambini delle sfide che loro riescano a gestire e in cui possano avere – in quel momento – buoni risultati, anziché metterli di fronte a obiettivi troppo grandi per loro. Inoltre raccomando di puntare l’accento sul loro miglioramento rispetto al livello di partenza individuale anziché cercare di farli emergere rispetto agli altri.
Un altro modo vincente per permettere lo sviluppo di un senso di autoefficacia positivo è dare la possibilità di osservare dei modelli simili ottenere dei risultati dopo essersi impegnati; naturalmente i modelli osservati dovrebbero essere realmente paragonabili al livello del bambino, altrimenti la loro influenza sarà molto limitata.
Anche l’incoraggiamento ha un ruolo potente nel favorire la sensazione di potercela fare. È davvero importante verbalizzare di fronte ai nostri figli e ai nostri studenti che siamo convinti che possano riuscire: in questo modo faranno propria l’idea di avere ciò che occorre per raggiungere gli obiettivi che si sono prefissati e si sforzeranno per raggiungerli. Io lo dico spesso: un incoraggiamento muove più di cento rimproveri.
Infine c’è la questione della resistenza: quando i ragazzi stanno fronteggiando delle sfide, è probabile che si sentano sotto pressione e appaiano stressati, come accade a tutti noi. A volte i segnali di tensione e di reazione allo stress vengono subito interpretati come segni di vulnerabilità e di debolezza: in realtà non è così, si tratta semplicemente delle risposte che il nostro corpo fornisce quando si attiva per affrontare al meglio una sfida.
Che cosa possiamo fare per aiutare i ragazzi a tollerare lo stress legato all’impegno scolastico? Stimoliamoli, ad esempio, sin da piccoli a conoscere bene il proprio corpo e le proprie reazioni, così da interpretare i segnali che manda loro, in modo che sappiano regolare da soli il livello di carico che sono in grado di gestire5.

Di fronte all’ansia o alla paura generata da eventi minacciosi l’essere umano reagisce prima di tutto confrontando la minaccia con le proprie risorse. Quando il confronto pende a favore delle risorse, la minaccia perde la sua carica ansiogena così come se la rappresenta la mente del bambino/adolescente e la sofferenza preconizzata perde il potere di incutere paura: l’individuo affronterà il problema o il compito che lo aspetta. Anche i risultati acquisteranno un significato nuovo: il suggello di un successo o lo sprone a riprovarci.

Note
1 https://www.tempi.it/il-giorno-in-cui-saremo-sorpassati-per-sempre/
2 https://www.inpsiche.it/1110-2/
3 https://www.womenews.net/daniela-lucangeli-e-il-cortocircuito-emozionale-la-nuova-frontiera-nella-scienza-dellapprendimento/
4 Ibidem
5 https://www.erickson.it/it/mondo-erickson/il-senso-di-autoefficacia