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Ad gràsia
di Ciffo

radiobase.eu/2025/04/15/ad-gra

Ad gràsia … e contentémas = di grazia, e accontentiamoci. Si perdeva 2-0 fino al 18’ del secondo tempo, e il Mantova giocava sì, ma come stesse vincendo: senza fretta, e con il suo famoso “palleggio” irritante se sterile… quand’ecco che lo Spezia (che giocava bene ma con troppi falli) resta in 10 per l’espulsione di tale Bertola voluta dal Var (piede “a martello” su Mensah)

Recensione “Nonostante”: Purgatorio Amaro

Dopo un buonissimo esordio dietro la macchina da presa con Ride, Valerio Mastandrea raddoppia, anzi triplica, scrivendo, dirigendo e interpretando un film che lascia da parte il realismo agrodolce del film precedente, spostando il focus su una storia d’amore atipica, malinconica, surreale ma al tempo stesso molto dolce. Mastandrea è bravissimo a evitare ogni cliché, con il solito equilibrio tra cinismo, malinconia e leggerezza, un tratto che contraddistingue il suo memorabile protagonista e, di conseguenza, tutto il film.

In un ospedale le anime dei pazienti in coma vivono, parlano, passeggiano, in attesa di un risveglio o della morte. Una piccola comunità di persone molto diverse tra loro, con in comune un letto d’ospedale, una certa disillusione nei confronti della vita e un quasi perenne stato d’attesa. Il tempo scorre sempre uguale, tra improvvise raffiche di vento provocate da chi sta per morire, finché tra i corridoi nell’ospedale non si presenta una nuova paziente, anche lei ovviamente in coma, una donna che stravolgerà lo stato d’apatia rendendo molto più spaventosa l’idea della morte o, ancor peggio, della vita.

Se in Ride il tema centrale era l’elaborazione del lutto, in Nonostante c’è un’altra elaborazione da affrontare, quella di chi va via da questo limbo, morendo o, ancor più imprevedibilmente, svegliandosi dal coma, tornando su, come dicono i personaggi. Questa è probabilmente l’idea più potente del secondo film di Valerio Mastandrea: la paura della vita, intesa sia come risveglio che, da un punto di vista meno concreto, come un faccia a faccia con i propri sentimenti, con un’uscita dalla propria comfort zone emotiva. Forse con un terzo atto meno affrettato avremmo potuto parlare di uno dei migliori film italiani dell’anno, Mastandrea però è evidentemente cresciuto e maturato come artista e sta riversando la sua sensibilità e il suo valore anche dietro la macchina da presa. C’è più emozione, forse, in questo purgatorio immaginario che in tanta realtà, soprattutto perché, concedetemi il gioco di parole, al cuor non si comanda.

#Cinema#coma#commenti

Recensione “Lee Miller”: La Ragazza con la Rolleiflex

Il problema atavico di tanti film ispirati alla vita di grandi fotografi e grandi fotografe è che, pressoché sempre, le foto che hanno realizzato sono decisamente più interessanti del contesto in cui si muovono le loro vite. Il film di Ellen Kuras dedicato alla carriera di Lee Miller, modella e musa di Man Ray prima, corrispondente di guerra in qualità di fotoreporter dopo, non fa eccezione, dimostrandosi troppo convenzionale nel raccontare il lavoro di una donna straordinaria, una fotografa immersa per anni in un mondo dominato da uomini armati (da questo punto di vista è stata la più grande della sua epoca, seconda forse soltanto alla spericolata quanto eccezionale Margaret Bourke-White, sulla quale il cinema prima o poi dovrebbe puntare lo sguardo).

Gran parte del film mostra le sequenze in cui, con le libertà narrative del caso, Lee Miller ha scattato le sue immagini più celebri, dalle dipendenti di Vogue con le maschere antincendio alla celeberrima immagine della stessa fotografa intenta a lavarsi nella vasca da bagno di Hitler, dopo la fine della guerra. Sempre chinando il capo verso la sua Rolleiflex, con la quale ha raccontato, oltre agli orrori del mondo, soprattutto donne di qualunque genere, che siano ragazze in un rifugio antiaereo, aviatrici, naziste suicide o bambine spaventate. Saranno questi i frammenti più belli di Lee Miller.

Ellen Kuras è senza dubbio più celebre come direttrice della fotografia che come regista (qui al suo primo film di finzione dopo il documentario The Betrayal, candidato all’Oscar), basti pensare al suo lavoro più importante, Eternal Sunshine of the Spotless Mind, nel quale ha plasmato visivamente le idee di Michel Gondry, contribuendo a consegnare il film alla storia del cinema. Senza dubbio è interessante vedere un’esperta di luci accostarsi al lavoro di una fotografa, che fa della luce il suo inchiostro quotidiano, peccato però che ogni scena proceda con il pilota automatico, sprecando un cast prezioso, costellato da perle come Marion Cotillard e Noemie Merlant, oltre alla protagonista Kate Winslet. Nonostante proceda tutto come ci si aspetti, compresa la galleria delle reali immagini di Lee Miller durante i titoli di coda, è un film pieno di intensità, di carica emotiva, che ha bisogno di far sentire la propria voce. Ma la fatica di Ellen Kuras alla fine non fa altro che rimpolpare la lunga lista di film incentrati sul lavoro di fotoreporter di guerra: da Sotto Tiro a Mille Volte Buona Notte, da Bang Bang Club al recente Civil War (dove la protagonista si chiama, guarda caso, proprio Lee…), solo per citarne alcuni. Per carità, Lee Miller non è peggiore di tanti titoli simili, ma il punto è che non riesce neanche a essere migliore e la domanda che segue è: forse ci stiamo stufando di vedere così tante rappresentazioni della Seconda Guerra Mondiale? Forse sarebbe il caso di mostrarla in maniera diversa (come fatto straordinariamente da La Zona d’Interesse)? Forse il problema di questo film è proprio nell’immaginario che ci mostra, a cui siamo probabilmente assuefatti? Rimugino su questo punto senza conoscere una risposta, certo però di poter aprire un motore di ricerca, sfogliare le immagini di Lee Miller e restare con gli occhi incollati a quelle foto straordinarie. Una reazione che, purtroppo, questo buon film non riesce a regalarci.

#Cinema#commenti#film

Recensione “A Complete Unknown”: I Tempi Cambiano, Una Canzone Per Volta

James Mangold l’ha fatto di nuovo. Dopo il meraviglioso Walk The Line, film del 2005 incentrato su Johnny Cash e sul suo tormentato rapporto con June Carter (che valse a Joaquin Phoenix una nomination agli Oscar e a Reese Whiterspoon una meritata statuetta), il regista di Logan e Le Mans 66, nato a New York nel 1963, cioè proprio mentre Bob Dylan pubblicava il suo primo album di inediti, ha compiuto un nuovo miracolo, portando sul grande schermo uno degli eventi più rivoluzionari e discussi dell’intera storia della musica: la svolta elettrica del menestrello di Duluth.

Per me è difficile scindere A Complete Unknown dalle emozioni personali, dal mio vissuto. Ci sono troppe cose in gioco. Perché chi scrive ha trascorso gli ultimi anni del liceo recandosi a scuola con The Freewheelin’ praticamente fisso nel lettore cd, con i compagni di classe che domandavano perché ascoltassi quella musica “da vecchi” (sic). Perché chi scrive ha cominciato a capire un po’ più cose del mondo ascoltando le parole di Bob Dylan, che a suo modo ha contribuito a formare e plasmare la mia coscienza politica. Ed è per questo che è difficile, per me, non emozionarmi quando sullo schermo Chalamet (straordinario) intona Don’t Think Twice It’s All Right o Blowin’ in the Wind, o It Ain’t Me Babe o ancora The Times They Are A-Changin’, se non Girl From The North Country. Come detto, ci sono troppi ricordi in gioco.

Certo, la perfezione sarebbe stata avere nuovamente Joaquin Phoenix nei panni di Johnny Cash, in una sorta di “James Mangold Cinematic Universe”, ma mi basta aver trovato qui il testo di quella lettera che, nel film del 2005, Cash aveva scritto al giovane Dylan. Mangold riesce a costruire un film che contiene al suo interno mille storie diverse, che forse saranno più familiari al pubblico statunitense che a quello italiano, ma tant’é: dalla leggenda Woody Guthrie (correte a leggere la sua autobiografia Questa Terra è la mia Terra), allo sfortunato Dave Van Ronk (i Coen si ispirarono a lui in quella meraviglia di A Proposito di Davis), dal sogno di Pete Seeger di cambiare il mondo attraverso la musica, all’attivista Joan Baez, regina del folk, che pochi anni dopo sarebbe diventata “l’usignolo di Woodstock”. Oppure Sylvie, personaggio fittizio chiaramente ispirato a Suze Rotolo, musa e compagna del cantautore, prima di quella metamorfosi artistica che avrebbe cambiato la sua vita e (soprattutto?) la storia della musica.

Per chi la vuole cercare, c’è davvero tanta carne al fuoco in A Complete Unkwnown: al di là delle digressioni personali è un film completo, totalmente credibile, coinvolgente, straordinario nelle interpretazioni, che racconta l’uomo dietro il genio, l’essere umano dietro il rivoluzionario, il futuro premio Nobel per la letteratura dietro i capelli spettinati di un “completo sconosciuto”. Ma soprattutto c’è tanta, tantissima, musica stupenda. I tempi cambiano, per noi comuni mortali, così come per i geni: basta viverli, una canzone per volta.

L'arte di sparare sentenze: Perché nei commenti online vince l'arroganza

#Stefano
Ti sei mai chiesto perché sui social network la gente si sente in diritto di sparare sentenze senza nemmeno leggere gli articoli? Scopri come l'illusione della competenza, la polarizzazione e la rabbia online influenzano il modo in cui interagiamo. Troverai consigli su come promuovere un dialogo più sano e ri...
short.staipa.it/en186

L’arte di sparare sentenze: Perché nei commenti online vince l’arroganza

Ti è mai capitato di aprire un articolo di giornale sui social network e scorrere i commenti? Se la risposta è sì, avrai sicuramente notato una scena sempre più familiare: utenti che sparano sentenze lapidarie con tono sprezzante, come fossero i massimi esperti di qualsiasi argomento. Che si tratti di politica, medicina, economia o scienza, ognuno si sente in diritto di dire la propria, spesso con poche informazioni e molta, troppa sicurezza. Ma da dove viene questa spinta a ergersi a giudice supremo senza nemmeno leggere l’articolo?

La risposta non è semplice, e chiama in causa dinamiche psicologiche, sociali e culturali che rendono i social network il terreno fertile ideale per la diffusione di questo fenomeno.

1. L’illusione della competenza

Uno dei problemi centrali è l’effetto Dunning-Kruger (https://short.staipa.it/y01sq), un bias cognitivo per cui chi ha scarse competenze in un argomento tende a sovrastimare la propria conoscenza. In altre parole: meno sappiamo, più pensiamo di sapere.

Sui social network, questa illusione si amplifica per due motivi:

  • Accessibilità delle informazioni: Qualche ricerca superficiale su Google o la lettura di un titolo sensazionalistico bastano a farci sentire esperti.
  • Mancanza di confronto reale: Nei commenti online manca il dialogo faccia a faccia che solitamente ci costringe a mettere in discussione le nostre affermazioni.

L’anonimato parziale e la distanza emotiva dai destinatari della nostra comunicazione ci danno un falso senso di sicurezza: Se io lo dico, deve essere giusto, se qualcuno mi contraddice posso risopondere senza pensare alle conseguenze come quando sono di fronte a una persona reale, se la conversazione si mette male posso smettere di rispondere e far finta di nulla.

A questo va aggiunto che in una platea così ampia è molto probabile trovare almeno qualcuno che la pensi come me, ed è probabile che riceverò dei like, delle conferme, dei commenti che rafforzino la mia idea, indipendentemente dal valore reale della stessa.

Non sorprende quindi che, a seconda del caso, tutti sembrino diventare improvvisamente virologi, meteorologi, fini statisti o esperti di geopolitica, in una sorta di metamorfosi digitale dell’esperienza.

2. La polarizzazione e l’effetto echo chamber

Un altro fenomeno che alimenta questa arroganza digitale è la polarizzazione sociale. Gli algoritmi dei social network sono progettati per mostrarci contenuti in linea con le nostre opinioni e idee. Di conseguenza, siamo esposti sempre meno a opinioni diverse e ci troviamo all’interno di vere e proprie echo chambers (short.staipa.it/st5gm), dove tutto quello che leggiamo rafforza ciò che già pensiamo.

Questo non solo consolida le nostre certezze, ma rende anche più difficile empatizzare con chi la pensa diversamente. Il risultato? Un dialogo che si trasforma in scontro: chi non è d’accordo diventa un nemico da abbattere a colpi di commenti sprezzanti e aggressivi, e ci sembra ridicolo, quasi grottesco pensare che qualcuno la pensi in maniera così diversa da quello che vediamo nella nostra bolla personale.

In questo contesto, emerge anche una tendenza inquietante: colpevolizzare le vittime. Ogni tragedia diventa terreno fertile per giudizi affrettati: “Se l’è cercata”, “Ma come faceva a non saperlo?”. Che si tratti di incidenti, violenze o stupri, molti utenti trovano conforto nel dare la colpa alle vittime, forse per sentirsi meno vulnerabili di fronte alla realtà. Questo fenomeno, noto come victim blaming, o colpevolizzazione della vittima (https://short.staipa.it/wwzyz), è radicato in meccanismi psicologici di difesa come:

  • Rimozione della responsabilità personale: Attribuire la colpa alla vittima consente di rassicurarsi che eventi simili non accadrebbero a noi, poiché riteniamo di non commettere gli stessi errori.
  • Razionalezza retrospettiva (hindsight bias): La tendenza a credere che le conseguenze di un evento fossero prevedibili, portando a giudicare chi non le ha evitate come negligente o responsabile.
  • Proiezione: Giudicare duramente le vittime può essere un modo per evitare di confrontarsi con le proprie insicurezze o vulnerabilità.
  • Dissonanza cognitiva: Minimizzare la responsabilità dell’aggressore o enfatizzare gli errori della vittima può servire a ridurre il disagio che si prova di fronte a una realtà complessa e ingiusta.

3. La rabbia come valuta sociale

uesto avviene perché ricevere like e condivisioni stimola il rilascio di endorfine e dopamina nel cervello, creando una sensazione di gratificazione immediata simile a una ricompensa, che rinforza il comportamento e spinge a replicarlo. Un fenomeno ormai ben studiato e acclarato (https://short.staipa.it/3iqiu), che evidenzia come i social network attivino i circuiti di ricompensa cerebrale in maniera simile ad altre esperienze gratificanti.

Questo crea un circolo vizioso in cui esprimere un parere con arroganza e sicurezza diventa un mezzo per ottenere attenzione. Il premio non è la verità o la comprensione, ma il semplice riconoscimento sociale attraverso l’engagement.

4. Perché la rabbia? Dinamiche psicologiche

Dietro questa rabbia crescente si nasconde una profonda frustrazione. La società attuale è veloce, iperconnessa e complessa. La sensazione di non avere controllo sugli eventi porta molte persone a sfogare il proprio disagio in uno spazio virtuale.

Un commento rabbioso e sicuro serve a rassicurare se stessi: “Io so come stanno le cose, sono meglio di chiunque altro”. La verità è che questa sicurezza nasconde spesso paura e insicurezza.

5. Cosa si può fare? Verso un dialogo più sano

Cambiare queste dinamiche è complesso, ma non impossibile. Ecco alcune proposte per mitigare il fenomeno:

  • Educazione al pensiero critico: Insegnare fin da giovani a leggere, analizzare e mettere in discussione le fonti delle informazioni.
  • Frenare l’impulsività: Prima di commentare, fermarsi a riflettere: ho letto davvero l’articolo? Sto portando un contributo utile alla discussione?
  • Responsabilizzare i social network: Le piattaforme dovrebbero incentivare contenuti di qualità piuttosto che interazioni rabbiose.
  • Promuovere il confronto costruttivo: Valorizzare spazi di dialogo dove il confronto tra idee diverse è incoraggiato, non punito.

Cosa possiamo fare noi nel nostro piccolo?

Ognuno di noi, nel suo piccolo, può contribuire a un ambiente digitale più sano:

  • Prendersi tempo: Leggere davvero l’articolo, verificare le fonti e non fermarsi ai titoli.
  • Praticare l’empatia: Mettersi nei panni di chi è coinvolto e riflettere prima di giudicare.
  • Segnalare contenuti tossici: Quando ci imbattiamo in commenti offensivi o disinformazione, segnalare può fare la differenza.
  • Incentivare il buon esempio: Rispondere con gentilezza e rispetto anche a chi sembra provocare.
  • Uscire dalle camere dell’eco: Cercare fonti e opinioni diverse per sviluppare un pensiero critico più ampio.

Conclusione: Un commento non è una sentenza

La prossima volta che ti troverai a commentare un articolo online, fermati un momento. Leggi, rifletti, e chiediti: sto aggiungendo qualcosa alla discussione o sto solo dando sfogo alla mia frustrazione? La differenza è enorme, e lo dico anche a me stesso.

Dietro ogni titolo di giornale, ogni post e ogni argomento, c’è una complessità che merita rispetto. Scegliere di commentare con curiosità e apertura, anziché con arroganza e rabbia, è un piccolo passo che possiamo fare per costruire un dialogo migliore.

Forse è ora di smettere di sparare sentenze e tornare a fare ciò che in fondo dovremmo fare tutti: informarci, ascoltare e, solo dopo, parlare.

Recensione “Here”: un puzzle di gioie e dolori

Hic et nunc, qui e ora, dicevano i latini. Qui e in ogni momento, risponde invece Robert Zemeckis, riarrangiando per il grande schermo la graphic novel omonima di Richard Maguire, dove osserviamo la storia di un pezzo di terreno, un lotto, una casa, un soggiorno, dagli albori della storia fino ai giorni nostri. Nel nuovo lavoro del regista di Forrest Gump, che vede la reunion cinematografica di Tom Hanks e Robin Wright, il tempo infatti scorre, così come le vite, con piccoli e grandi momenti di esistenze tutto sommato comuni, in un puzzle di gioie e dolori da comporre in un unico angolo del pianeta, attraverso i secoli, i decenni, gli anni.

Grazie a un massiccio utilizzo della computer grafica, che abbiamo già visto in altri film (come ad esempio The Irishman di Martin Scorsese), i volti di Hanks e Wright tornano quelli della loro adolescenza, poi della loro età adulta grazie a un de-aging in fin dei conti credibile, se non fosse che sembra di trovarsi in un videogame iper-realistico, una sorta di versione cinematografica di The Sims o qualcosa del genere (ed è abbastanza inquietante pensare che in The Congress di Ari Folman, la stessa Robin Wright interpretava la parte di un’attrice che cedeva i diritti digitali del suo volto per poter essere replicata all’infinito in qualunque film). Al di là dei discorsi tecnici, la sfida di Zemeckis di costruire 100 minuti di film in uno spazio circoscritto è decisamente vinta, in una serie di continui rimandi ad epoche passate (o future), utilizzando non dissolvenze o netti stacchi di montaggio, ma inserendo nelle immagini piccoli riquadri che apriranno la finestra sulla scena (ed epoca) successiva, mantenendo puro lo spirito della graphic novel, dove Maguire inseriva in ogni tavola diversi riquadri per mostrare cosa accadeva in quell’angolo del soggiorno in un tempo differente rispetto a quello del racconto: credetemi, è più facile vederlo che raccontarlo. Quell’unico frame, con i suoi giochi di sovrapposizione e comunicazione tra epoche differenti, ha certamente il suo fascino, quantomeno a livello visivo, poiché a livello narrativo funziona a intermittenza: sì, è bellissimo seguire l’evoluzione di questa famiglia, è divertente anche osservare i soldati della guerra d’indipendenza festeggiare la resa degli inglesi, ma alla fine cosa resta? Qualche ricordo, un po’ di tenerezza e forse la scarsa indulgenza nei confronti dei personaggi, visto che ciò che emerge maggiormente sono le amarezze della vita, le malattie, le disillusioni, il modo in cui i sogni e le aspirazioni di gioventù marciscano sotto strati di polvere e frustrazione (“Sarò un artista”, dice il giovane Tom Hanks a suo padre Paul Bettany, che gli risponde ironicamente: “il mondo ne ha proprio bisogno!”).

Non si può certamente dire che Here non sia un’opera originale e, per certi versi, interessante: è solo il ciclo della vita che si svolge in quella casa che, probabilmente, non lo è davvero abbastanza.

Capitolo 393: Una Notte d’Autunno

Da che mondo è mondo, dicembre è usualmente il mese in cui si corrono a recuperare tutti quei film, più o meno meritevoli, che ci siamo persi durante l’anno, in modo da poter stilare la classica lista dei film più belli dell’anno con cognizione di causa. In questo 2024, tuttavia, ho visto talmente tanta roba che mi ritrovo ora senza dover recuperare quasi nulla (a parte l’ultimo di Almodovar, che conto di vedere al più presto), quindi se avete consigli su cose davvero imperdibili uscite in sala quest’anno, fatevi sotto adesso o tacete per sempre (scherzo, non smettete mai di consigliarmi cose belle). Tra le altre cose, non sono neanche entrato ancora nel mood dei film natalizi, quindi aspettatevi l’ottocentesimo rewatch di Love Actually, presto o tardi.

Gloria – Una Notte d’Estate (1980): Gloria è forse il nome femminile più utilizzato nei titoli dei film, quindi è bene specificare che in questo caso si tratta dello splendido Leone d’Oro vinto da John Cassavetes, qui al suo terzultimo film. Il film comincia con una ragazza che entra in un condominio e si sente minacciata da qualcosa o qualcuno: è passato un minuto e sei già agganciato. La donna è la moglie di un pentito della mafia, sul quale pende una condanna a morte. All’arrivo dei gangster, giunti sul posto per far fuori tutta la famiglia, il marito affiderà alla vicina Gena Rowlands il figlioletto. La nostra è riluttante ma è costretta ad accettare suo malgrado: comincerà un viaggio tra le strade di New York con i due fuggitivi braccati dai mafiosi. Era da tempo che non vedevo un film così bello e coinvolgente, dove può succedere di tutto e non sai proprio cosa aspettarti. Gena Rowlands inoltre è straordinaria, iconica, totale. Gloria è stato scelto come film preferito per il progetto Film People, che come sempre vi invito a seguire.
••••½

Milano Calibro 9 (1972): Al Teatro Palladium, giusto sotto casa mia, si è svolto come ogni anno il bel festival cinematografico Cinema Oltre, dove c’è sempre occasione per vedere ottimi film e incontrare professionisti del settore. Quest’anno, in chiusura di questi quattro giorni, è stata proiettata la versione restaurata di questo cult di Fernando Di Leo, in cui Gastone Moschin è un malvivente appena uscito di galera, sospettato dai suoi “colleghi” di aver trafugato un bottino importante prima di essere arrestato. Il nostro deve guardarsi le spalle per tutto il film, in un vorticoso viaggio nei meandri di una Milano cupa e pericolosa, dove risuona però una splendida colonna sonora. Nelle immagini di Di Leo c’è tanto (ma tanto) Jean-Pierre Melville, soprattutto Frank Costello Faccia d’Angelo, sia nei costumi che nello stile, la fotografia algida e, ovviamente, i temi. Bellissimo.
•••½

Witches (2024): Interessante documentario di Elizabeth Sankey che racconta, attraverso le testimonianze di diverse donne (lei compresa), la depressione post-partum, analizzando il rapporto tra la salute mentale e le streghe nella cultura popolare. Il lavoro è senza dubbio notevole e, osservando la qualità del documentario, prodotto con un budget più che importante, in tutta onestà però devo ammettere che non si tratta di un argomento sul quale mi soffermerei per un’ora e mezza, ma questo è ovviamente un problema soggettivo. Bellissimo l’uso di immagini tratte da decine e decine di film, da Rosemary’s Baby a Suspiria, da The Witch a Ragazze Interrotte, un perfetto tappeto visivo per le parole in sottofondo. Se il tema vi interessa, trovate il documentario su Mubi.
•••

Close Your Eyes (2023): Film spagnolo di Victor Erice, in selezione ufficiale a Cannes. Per un quarto d’ora ti chiedi cosa stai guardando, poi la storia prende tutta un’altra direzione e la trovata è davvero splendida: un attore è sparito durante la lavorazione di un film e ormai sono 30 anni che non si hanno più sue notizie, finché una trasmissione non riapre il caso intervistando il suo più caro amico, nonché regista di quel film. La cosa più bella è che si tratta di un film dalle molteplici letture: c’è il rapporto tra realtà e finzione cinematografica, il discorso sul cinema che preserva la memoria ma c’è anche il tema dell’identità (la primissima inquadratura è su una scultura di Giano Bifronte), visto che diversi personaggi hanno più nomi, sia personaggi del film, che quelli del film nel film (oltre al bebé che deve ancora nascere). “Che cos’è un nome?”, dice il protagonista a un certo punto. Tutto bello, tutto interessante, tutto affascinante (compresa la meravigliosa Soledad Villamil, indimenticabile ne Il Segreto dei Suoi Occhi di Campanella), eppure non mi ha mai emozionato per un istante. Peccato.
•••

Berlin, I Love You (2019): Maldestro tentativo di replicare la meravigliosa bellezza di Paris, Je T’Aime (del 2006, ve ne ho parlato qui). Un conto però è avere registi come i Coen, Cuaron, Payne, Salles o Van Sant, tra gli altri, un altro è non averli, con tutto il rispetto per chi ha diretto i dieci episodi di questa raccolta tedesca. Lo schema è sempre lo stesso del film di Parigi (e di quelli successivi su Tokyo e Rio): una raccolta di cortometraggi che hanno come tema l’amore, ambientati ovviamente nella città del titolo. C’è Jim Sturgess che si innamora di un’auto, Keira Knightley alle prese con Helen Mirren, Diego Luna transessuale che discute di amore con un adolescente e via dicendo. Le storie però sono deboli e la bellezza di Berlino non basta a salvarsi da un prevedibile naufragio. Se proprio non potete farne a meno, lo trovate su Prime.
••

Nosferatu il Principe della Notte (1979): Incipit stupendo e terrificante, che ti trascina subito dentro al film, come solo i grandi maestri come Herzog possono fare. Il regista tedesco, a suo dire, con questo remake del capolavoro di Murnau voleva creare un ponte tra l’espressionismo tedesco degli anni 20 e il nuovo cinema tedesco degli anni 70, di cui lui e Wenders sono stati i più illustri esponenti. La storia è quella del vampiro di Bram Stoker (che qui tra l’altro si chiama proprio Dracula) e nei panni del non morto c’è Klaus Kinski, che stranamente invece di infondere follia al personaggio, lo rende invece quasi umano, malinconico, forse la cosa più bella del film. Per il resto il film non mi è sembrato essere invecchiato stupendamente, ma questo potrebbe anche essere perché l’ho rivisto pochi giorni dopo aver amato la nuova versione di Robert Eggers (trovate la recensione completa qui!), esteticamente clamorosa. L’opera di Herzog resta comunque un lavoro affascinante, che merita di essere recuperata soprattutto prima di andare a scoprire il nuovo Nosferatu, che uscirà in sala il 1° gennaio.
•••½

Recensione “Nosferatu”: l’oscurità dentro di noi

Parafrasando Nietzsche, si può dire che se tu guarderai a lungo nell’oscurità, anche l’oscurità vorrà guardare dentro di te. Ed è proprio in un buio accecante che Eggers immerge lo spettatore (e Lily-Rose Depp) sin dalla primissima inquadratura, come a volerlo rendere parte di quella stessa notte buia, la stessa oscurità nella quale il regista fa muovere le sue ombre.

Il vampiro Nosferatu, il “non spirato”, nasce nel 1922 come plagio cinematografico del capolavoro di Bram Stoker Dracula, in uno dei film più simbolici della cinematografia di Murnau, dell’espressionismo tedesco e senza dubbio di tutto il cinema muto: qualunque cinefilo che si rispetti avrà presente l’inquietante sagoma deformata di Max Schreck, il primo Nosferatu del cinema, proiettata sulla parete della sua decadente magione. Eggers prende quell’ombra e la diffonde per 135 minuti di film sugli occhi di chi guarda, soprattutto tra le pieghe di un desiderio latente, quello di una protagonista eccezionale, che rispetto alle versioni precedenti di Nosferatu, qui diventa il vero e proprio motore della storia: Lily-Rose Depp è infatti splendida e inquietante al tempo stesso, a tal punto che forse mi spaventerebbe addirittura incontrarla per strada, e concede tutta se stessa ai suoi demoni, alla sua solitudine, al suo desiderio, in una società maschilista controllata da inetti, come il marito della sua Ellen, il solito Nicolas Hoult confuso e incapace di cambiare espressione, non importa se il suo personaggio venga bullizzato nel liceo descritto da Nick Hornby, sia in preda a dubbi etici e morali nella giuria di Clint Eastwood o terrorizzato nei Carpazi da un uomo molto più carismatico di lui (sebbene si tratti di uno spaventoso vampiro, questo glielo concediamo). Perché, diciamolo, è molto più interessante il rapporto che intercorre tra Ellen e Orlok rispetto a quello che la donna ha con suo marito: è infatti la lotta contro l’oscurità che Leni porta dentro la vera anima di questo convincente lavoro di Eggers, un horror gotico ricco di atmosfere e suggestioni appartenenti al secolo scorso, ma capace anche di essere moderno, sempre credibile e mai grottesco. La grandezza di questa nuova versione di Nosferatu è, al di là dell’indubbia potenza visiva, la capacità di reinventarsi in ogni scena, di essere coinvolgente anche di fronte a una storia che abbiamo visto in tutte le salse, che il regista statunitense però riesce a modernizzare con la metafora, neanche troppo sottile, di una donna indipendente in lotta contro una società di maschi dominanti, che frenano i suoi desideri, che decidono come deve vivere e che addirittura tentano di frenare la sua “follia” facendole indossare corpetti più stretti.

Il Conte Orlok può anche far paura (bravo Skarsgaard, ormai abbonato a vestire i panni dei mostri), ma non sarà mai così spaventoso come quando Eggers costringe noi spettatori – e ogni personaggio dei suoi film – a fare i conti con l’oscurità che portiamo dentro, che probabilmente rinneghiamo, ma che forse dovremmo imparare a riconoscere. Perché anche dopo la notte più buia, c’è sempre il sorgere del sole.

Capitolo 392: Sixteen Candles

Come avrete avuto modo di leggere sui social, se seguite le pagine di Una Vita da Cinefilo (su facebook e twitter) e di filmpeopleproject (su instagram e threads), il primo dicembre il nostro amatissimo blog ha compiuto la bellezza di 16 anni. In un mondo in cui i magazine online sono costretti a chiudere e dove regna il dominio di reels, tiktok e videorecensioni, che ci siano tante persone che ancora leggono le mie recensioni è un piccolo miracolo. In questi 16 anni le soddisfazioni non sono mancate: sulle dispense del corso di Critica Cinematografica 1, Appunti di Storia e Critica Del Cinema dell’Università di Bologna, Una Vita da Cinefilo viene citato come un modello alternativo e valido rispetto a quello della critica ufficiale, mentre la rivista 8½, progetto editoriale realizzato da Cinecittà, ha inserito il nostro tra i 10 blog cinematografici più autorevoli, innovativi, efficaci e originali.

Se vi piace quello che leggete, condividete un articolo o una recensione, commentate, ditemi sempre la vostra, interagite sui social e divertitevi con me a chiacchierare di film e serie tv (anche se un po’ più di film, come sapete!). Il rapporto i lettori e le lettrici è sempre stato uno dei punti di forza di questo spazio e sarebbe bello farlo conoscere ad altri appassionati e ad altre appassionate come noi. Taglio corto: grazie a chi c’è stato in questi 16 anni e grazie a chi c’è ancora! E adesso parliamo di film.

Il Robot Selvaggio (2024): Per il cinema d’animazione deve essere l’anno dei robot e dei disastri climatici, visto che quest’anno sono già usciti i meravigliosi Il Mio Amico Robot e, recentemente, Flow. In un mondo ormai invivibile a causa dei cambiamenti climatici, un robot naufragato su un’isola, si attiva e cerca compiti a cui ottemperare. L’isola però è abitata solo da animali, tra cui una piccola oca, che pensa che il robot sia sua madre. Divertente e tenero, è il classico film d’animazione per i più piccoli che riesce però a fare breccia negli occhi degli adulti. In originale è spassoso godersi il doppiaggio, tra gli altri, di Lupita Nyong’o, Ving Rhames, Bill Nighty, Pedro Pascal e Mark Hamill. Bello, anche se, rispetto ai due titoli sopracitati, questo è destinato più a un pubblico preadolescente.
•••½

Do Not Expect Too Much From the End of the World (2023): Un film con due film paralleli che conversano tra loro (questo, di Radu Jude, e un altro film romeno del 1981, Angela Merge Mai Departe), un geniale piano sequenza finale di quasi 40 minuti, una protagonista femminile straordinaria (quanto l’attrice che la interpreta, Ilinca Manolache), un’opera ricca di citazioni, capace di raccontare perfettamente i tempi che corrono, personaggi social compresi. Il film racconta le giornate frenetiche di un’assistente di produzione alle prese con una sorta di pubblicità progresso per sensibilizzare gli operai di una multinazionale sulla prevenzione dagli infortuni sul lavoro. Totalmente fuori di testa, ma irresistibile (e come se non bastasse, c’è pure un cameo del regista Uwe Boll). Il cinema romeno non è solo il grande Mungiu e questa è una notizia eccellente.
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The Beast (2023): L’ultimo film di Bertrand Bonello, già autore del bellissimo Nocturama e del notevole Zombi Child, è forse il suo lavoro più ambizioso, pieno di rimandi a David Lynch (la scena conclusiva è proprio una dichiarazione d’amore a Twin Peaks), forse imperfetto, ma ricco di suggestioni visive, in una sorta di effetto droste del subconscio e della vita stessa. Esteticamente suggestivo (la Parigi del 2044 è perfettamente credibile), come ogni altra opera di Bonello è un film che si specchia un po’ troppo nel suo bisogno di essere “diverso”, come se volesse ogni cinque minuti dare di gomito allo spettatore per dirgli, sottovoce, “hai visto che scena eh?”. Faticoso nel primo atto, ma quando poi decolla diventa intrigante a non finire. Lea Seydoux è un’attrice totale e probabilmente non meritava una controparte così anonima come George MacKay, un attore che proprio non digerisco (che peccato non aver visto al suo posto il compianto Gaspard Ulliel, inizialmente scelto per il ruolo). Ad ogni modo è un film davvero bello, talmente affascinante da poter sorvolare su ogni imperfezione.
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La Tigre e il Dragone (2000): Quando ho visto questo film per la prima volta, al cinema Galaxy di Primavalle, ero ancora un fantastico adolescente, strabiliato dall’estetica di questo autore (Ang Lee), ammaliato dalla poesia di questa avventura, incentrata su una spada, sui ladri che la vogliono trafugare, sui guerrieri erranti che la vogliono recuperare. Un venerabile maestro, in procinto di godersi la meritata pensione, è costretto a rimettersi in gioco per salvare ciò che di più prezioso ha al mondo. No, non è la storia di Claudio Ranieri, ma un cappa e spada esteticamente meraviglioso, di cui non ci si stanca mai. Dieci candidature agli Oscar (e quattro statuette) per un film senza tempo. Una curiosità: il titolo originale (traducibile come “la tigre accucciata, il dragone nascosto”) è un’espressione cinese che indica i talenti celati. Bellissimo.
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Look Back (2024): Il cinema giapponese ci ha abituato talmente bene con i film d’animazione che, quando capita di vederne uno non straordinario, finiamo per storcere il naso più di quanto il film meriti. Il destino che tocca a quest’opera di Kiyotaka Oshiyama, che racconta la storia di due ragazze appassionate disegnatrici di fumetti e del destino che le lega. Il film parte bene, appare interessante sin da subito, ma manca qualcosa, manca tanto, forse troppo. Niente di più di una storia d’amicizia resa forte da una grande passione, che sfocerà nelle inevitabili incomprensioni, prima di un improbabile punto di non ritorno. Il pregio è che dura meno di un’ora, il difetto è quasi tutto il resto.
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SERIE TV: Vi era mancata la sezione con gli aggiornamenti sulle serie tv, vero? Bene, a proposito di animazione giapponese, parliamo subito del reboot di quel capolavoro di Ranma 1/2, di cui Netflix propone un episodio ogni sabato. Ora che ho già visto 9 episodi posso già esprimere la mia sul progetto: è un altro capolavoro, è esilarante, è avvincente, è coinvolgente, è meraviglioso tanto quanto l’originale. L’unico grande difetto, ma non è colpa della produzione, è il doppiaggio italiano, soprattutto per chi, come il sottoscritto, è affezionatissimo alle voci originali del cartone anni 90 (In particolare la nostra amata Akane, che senza la voce di Stella Musy perde davvero troppo). Comunque serie stupenda, i fan dell’originale non resteranno delusi.
Nelle ultime settimane ho continuato quella che dovrebbe finalmente essere l’ultima stagione di Cobra Kai, che ormai sta agonizzando dopo la straordinaria idea che aveva reso le prime due stagioni indimenticabili. Ora Netflix ha messo a disposizione un’altra tranche di episodi, in attesa della conclusione che dovrebbe arrivare nel 2025. Le idee ormai cominciano a scemare, è tutto talmente poco credibile da risultare costantemente posticcio, eppure gli ultimi dieci minuti dell’ultimo episodio messo a disposizione quest’autunno sono stati davvero una splendida sorpresa: è proprio vero, Cobra Kai never dies!
Da prima dell’estate inoltre sto guardando, mentre ceno, un episodio al giorno di Scrubs, che amavo molto ai tempi dell’università, quando trasmettevano gli episodi su MTv. Le prime quattro stagioni conservano ancora intatta la freschezza della serie, poi però già dalla quinta si intravede il cosiddetto “salto dello squalo”, come si dice in gergo e si avverte, lentamente, l’inevitabile declino. In totale sono nove stagioni ma non so se arriverò fino in fondo: la prima resta comunque un caposaldo nella storia delle commedie per il piccolo schermo (e Perry Cox uno dei suoi personaggi più iconici, ancora oggi straordinario).

Capitolo 391: Cavalli a Dondolo e Cammelli

C’è tanta carne nel fuoco di questo freddo novembre, dal quale sono riemersi dai letarghi estivi i piumini più caldi e i cappotti più lunghi. Sette film che ballano tra la grandezza assoluta e la schifezza più inutile, ma anche tra primissimi piani su ragazze bellissime (Celeste Dalla Porta e Jennifer Connelly) a campi lunghissimi di cammelli nel deserto, fino a portarci nel distopico futuro di Coppola. Insomma, c’è talmente tanta roba da aver lasciato fuori dall’elenco l’ultimo film di Clint Eastwood, Giurato Numero 2, di cui però potete leggere la recensione completa. Tanti altri grandi film sono in arrivo, per cui restate sintonizzati (e vi ricordo che potete seguire tutto ciò che vedo sulla mia pagina Letterboxd).

The Snapper (1993): Trasposizione televisiva, prima dell’approdo in sala, realizzata da Stephen Frears, che ha adattato l’esilarante romanzo Bella Famiglia di Roddy Doyle. La figlia maggiore di una numerosa famiglia di Dublino resta incinta (snapper, in dialetto irlandese, significa proprio sbarbatello, bebé), ma non vuole rivelare l’identità del padre. I pettegolezzi inondano il quartiere e toccherà al patriarca Colm Meaney (irresistibile come sempre) mettere a tacere le voci e tenere unita la famiglia. Nel pieno della tradizione cinematografica irlandese dell’epoca (vedi The Commitments o Due sulla Strada, entrambi tratti da romanzi di Doyle), il film è spassoso, divertente, pienamente godibile, grazie anche ad una fotografia molto calda, botta e risposta secchi, immagini sempre ricche di personaggi. Good vibes a non finire: ok la moda degli anni 80, ma che bello pure il cinema degli anni 90.
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Parthenope (2024): Una fantasia maschile confezionata dalle mani di un maestro. Una ragazza bellissima che tutti desiderano e nessuno riesce a tenersi, una città splendida nella sua decadenza, crepuscolare nel suo splendore, accecato da sole, mare, bellezze di marmo rovinate dal tempo e il solito caleidoscopio di personaggi più o meno iconici. In questo film si giocano due campionati: quello dei pesi massimi, quando vedi in scena Gary Oldman e Silvio Orlando (pagherei oro per vedere uno spin-off incentrato solo su di lui), e poi quello in cui giocano i giovani attori, fuori luogo e fuori posto (casting discutibile). Alcuni momenti ovviamente splendidi e scelte musicali perfette, è pur sempre un film di Paolo Sorrentino, oltre ad alcune riflessioni sul tempo che passa che sono esattamente pane per i miei denti. Nel complesso però è un film sfilacciato, che si specchia nelle sue frasi ad effetto e nella bellezza della milanese Celeste Dalla Porta, dalla quale, come del resto fanno i personaggi del film, non riusciamo a staccare gli occhi di dosso (anche perché, con tutti quei primi piani, sarebbe difficile). Per essere un film di Sorrentino è deludente, non c’è dubbio, anche se sono tanti i momenti che ti porti appresso dopo l’uscita dalla sala.
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Super/Man: The Christopher Reeve Story (2024): Bellissimo e soprattutto emozionante documentario realizzato da Ian Bonhôte e Peter Ettedgui, incentrato sull’attore Christopher Reeve, primo, indimenticabile Superman cinematografico e, per quanto mi riguarda, unico Superman esistente (quello dei film dei due Richard, Donner e Lester). Il documentario ripercorre la vita di Reeve, il celebre casting per Superman, scoraggiato dal compagno di teatro William Hurt, la vita sentimentale, la famiglia e, ovviamente, l’incidente e la conseguente lesione spinale che lo rese tetraplegico. Un film che sottolinea la capacità dell’attore di trovare una nuova vita, di impegnarsi in una fondazione per la ricerca e di non mollare mai un centimetro nonostante la paralisi, il tutto raccontato dai suoi figli e dalle persone che gli erano accanto (come i colleghi Susan Sarandon, Jeff Daniels, Glenn Close e Whoopi Goldberg). Emozionano in particolare gli aneddoti sulla straordinaria amicizia tra Christopher Reeve e Robin Williams. Una storia piena di intensità (ma anche di momenti ironici), un racconto ben realizzato, un bellissimo documentario.
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Audition (1999): Che Takashi Miike sia matto scocciato (in senso buono) è abbastanza risaputo. Che si sia fatto conoscere in tutto il mondo grazie a questo film, l’ho scoperto solo ora. Rimasto vedovo, un uomo di mezza età, incoraggiato dal figlio, decide di aprirsi nuovamente all’amore. Grazie a un amico, produttore cinematografico, organizza un’audizione per un film che non si farà mai, al solo scopo di poter incontrare e conoscere una gran quantità di donne diverse. La scelta cade su una ragazza molto dolce e dall’aria malinconica, che secondo l’amico produttore però ha fornito solo referenze false. Che si nasconde dietro? Dietro si nasconde un film strepitoso, in pieno stile Miike, che nasce come romance, prosegue come noir, finisce come… Legatemi, non posso dire altro. Lo trovate su Mubi, ma ci sono alcuni momenti abbastanza cruenti quindi preparatevi.
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Tutto Può Accadere (1991): Un’ora e venti di male gaze su Jennifer Connelly che, per carità, potrei ammirarla anche per dieci ore, però magari intorno avrei preferito vederci un film. Tentativo (fallito) di rendere Frank Whaley (celebre per essere stato crivellato da Samuel L. Jackson nel primo atto di Pulp Fiction) il nuovo Matthew Broderick. Seconda, nonché penultima regia di Bryan Gordon, è la storia di un adolescente sbruffone, chiacchierone e nullafacente che, obbligato a lavorare come addetto alle pulizie notturno di un grande magazzino, si ritrova a passare la notte con una rampolla ribelle rimasta anch’ella chiusa dentro il negozio (che ovviamente è Jennifer Connelly, mai così meravigliosa, soprattutto nella scena in cui ci imbambola mentre monta su un cavallo a dondolo). John Hughes, tra i produttori e sulla cresta dell’onda per il successo di Mamma Ho Perso l’Aereo, si è talmente vergognato di questo film da chiedere, invano, di non essere citato nei titoli di testa. Non a torto: il film è veramente inutile, non è ironico (ci prova, sicuro, ma il protagonista è troppo irritante per risultare divertente), non è avvincente (e qui neanche ci prova), non è veramente nulla. Ah no, una cosa è senza dubbio: dimenticabile.

Megalopolis (2024): L’opera più divisiva del 2024 nonché una di quelle destinate a essere maggiormente ricordate. Il film a cui Francis Ford Coppola sta lavorando dai tempi di Apocalypse Now è finalmente realtà e c’è talmente tanta roba dentro che meriterebbe un saggio a parte, un approfondimento tutto suo. Quel che è certo è che sarà studiato, analizzato e raccontato in tesi di laurea e corsi universitari, data la sua visione del futuro, il modo in cui mette in scena i lati più oscuri del capitalismo immergendo il tutto in un’enorme metafora sulla caduta dell’Impero Romano. In pochissime parole è la storia di un architetto (Adam Driver) che sogna di costruire un’utopica comunità futuristica per far risorgere la città dai suoi mali. Ad ostacolare il progetto però, c’è un sindaco avido e conservatore (Giancarlo Esposito) che vorrebbe invece costruire un enorme casinò per arricchire le casse comunali. In mezzo a questa faida ci sono complotti, scandali, attentati, sesso, storie d’amore e sensi di colpa, oltre al potere di fermare il tempo, di renderlo sostanza, di plasmarlo a proprio piacimento. Un imponente caleidoscopio di grandezza e decadenza, che non solo mescola New York e l’Antica Roma in un’unica, distopica, realtà, ma riflette anche il pensiero di uno dei più grandi registi della sua generazione, capace di non scendere mai a compromessi con nessuno, di vendere i suoi asset personali pur di mettere in scena la sua visione del mondo, con un messaggio di speranza e una richiesta di ottimismo. Penso che il mondo ancora non sia pronto per questo film, ma ai vostri figli piacerà!
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Lawrence d’Arabia (1962): La vita va avanti, anno dopo anno, ed è bellissimo ogni tanto scoprire di avere ancora meraviglie di questo tipo da poter vedere per la prima volta. Sembra come rinascere e di finire la giornata sentendoti più ricco, in una migliore versione di te (senza bisogno di prendere alcuna substance!). Durante la prima guerra mondiale, il tenente Peter O’Toole è un cartografo inglese di stanza al Cairo. Interessato alla cultura araba e convinto che le tribù possano diventare un prezioso alleato contro i turchi, che presiedono la penisola araba, viene mandato, tra lo scetticismo dei generali, a incontrare l’emiro Alec Guinness in mezzo al deserto, insieme al quale tenterà di mettere in piedi una rivolta (e se organizzi una rivolta con il futuro Obi Wan Kenobi, le possibilità di successo diventano notevoli). Non so da dove cominciare per magnificare un film di questo genere: la grandezza della messa in scena, tale da farlo sembrare una sorta di Dune ante litteram (non a caso ispirò pesantemente il romanzo di Frank Herbert, uscito tre anni dopo, dove la figura di Paul Atreides mostra molti punti in comune con Thomas Edward Lawrence), la bellezza delle immagini, i risvolti politici e strategici di ogni battaglia, i tanti semi gettati nella storia del cinema (raccolti appunto da Dune, ma anche da Star Wars, Braveheart o Avatar, a mio avviso), oltre ad aver ispirato generazioni su generazioni di cineasti. Sette premi Oscar, ma soprattutto un film enorme.
••••½

Recensione “Giurato Numero 2”: Delitto, Castigo e Clint Eastwood

Un film di Clint Eastwood non è mai soltanto un film di Clint Eastwood: quando ti siedi sulla poltroncina del cinema e le luci si spengono, avverti immediatamente il peso di decenni di cinema e delle aspettative che un nome del genere porta con sé. Uno che, alla veneranda età di 94 anni, vanta come sia come attore che come regista una filmografia impressionante. Con questo bagaglio di capolavori passati è problematico patteggiare con questo suo ultimo film, quasi un incrocio, più o meno riuscito, tra La Parola ai Giurati di Sidney Lumet, Delitto e Castigo e Un giorno in pretura (la trasmissione televisiva, non il film): il senso di colpa, la morale, il bisogno di dare un senso alla parola giustizia, tutti temi incredibilmente interessanti, forse affrontati da Eastwood con un sentimentalismo eccessivo per uno che per tutta la vita non ha fatto altro che mostrarci quanto fosse tosto.

Le premesse, tuttavia, sono incredibilmente coinvolgenti: Nicholas Hoult ha una bella moglie (Zoey Deutch, di cui già mi ero follemente innamorato in Tutti Vogliono Qualcosa di Linklater) e un bebè in arrivo, quando viene chiamato a far parte della giuria in un caso di omicidio. Quando si trova in aula ad ascoltare che l’imputato ha ucciso la moglie all’altezza di un cavalcavia e poi l’ha gettata in un dirupo, capisce che quella stessa buia e tempestosa notte, su quella stessa strada, quello che aveva colpito con la sua auto non era forse un cervo. Il conflitto è quindi atroce: il giurato ha letteralmente il potere di assolvere l’uomo e distruggere la propria famiglia o di farsi mangiare dal rimorso, pur salvando la propria vita. Cosa succederà ora? Questa è davvero una domanda che ci terrà per qualche minuto letteralmente agganciati alla poltroncina.

Il secondo atto, che si apre con l’omaggio al capolavoro di Lumet (e per un paio di minuti rasenta il remake), si regge sulle spalle di J. K. Simmons, che ruba la scena a un Hoult troppo impegnato a commiserarsi nei suoi dilemmi etici per non sembrare eccessivamente posticcio. Da qui in poi il film è impostato sul pilota automatico, tra continui primi piani sulla sofferenza del protagonista, svolte più che prevedibili e la solita retorica nazionalista del nostro Clint, che fa brindare i suoi avvocati alla grandezza del sistema giudiziario americano e solleva dubbi nel suo pubblico ministero dopo una semplice occhiata al motto In God we trust, affisso in aula. Giurato Numero 2, nonostante le ottime premesse, fa il suo compito e a suo modo funziona, ma tutto ciò che ne esce fuori è il classico “bel film da guardare in aereo”.