I candidati ufficialmente proposti dai partiti al primo scrutinio [n.d.r.: 1978, elezione del Presidente della Repubblica] sono essenzialmente tre: Ugo La Malfa (Pri) e Benigno Zaccagnini (Dc) per lo schieramento della “solidarietà nazionale”, Antonio Giolitti (Psi) per l’altro schieramento. In realtà, vengono portati avanti anche altri nomi, tutti socialisti, in quanto il partito di Craxi non accetta di votare per un candidato non socialista. Gli altri partiti, a parte il Pri, assecondano la strategia di Craxi proponendo candidati socialisti a lui sgraditi sperando di dissuadere il Psi dall’intento. Viene quindi avanzato dal Pci il nome di Sandro Pertini, personaggio inviso a Craxi, sia perché favorevole a un rinsaldamento dei rapporti con le sinistre, contrariamente alla nuova politica del Psi maggiormente propensa ad affrancarsi dai comunisti, sia perché, sostenitore della via della “fermezza”, durante la prigionia di Moro aveva accusato Craxi di un atteggiamento troppo blando nei confronti dei terroristi. Nonostante tutto, Craxi sceglie di fare buon viso a cattivo gioco, pensando che Pertini non avrebbe vinto la corsa alla presidenza, soprattutto a causa delle riserve espresse dalla Dc, e presenta la candidatura ufficiale di Pertini. Ma le previsioni di Craxi si rivelano errate: infatti, dopo il fallimento di La Malfa e Giolitti, gli stessi Pri e Dc decidono di confluire sulla candidatura di Pertini. L’8 luglio 1978, al sedicesimo scrutinio, Pertini diviene il primo presidente della Repubblica socialista con un voto quasi plebiscitario, mai registrato prima: 832 voti a favore su 995 (l’83%). Egli già nel corso dei vari scrutini esprime la volontà di essere eletto da tutti i partiti dell’arco costituzionale, nell’ottica di imprimere alla carica un reale significato di rappresentanza dell’unità nazionale <268. Del resto, “rigore morale e impegno senza riserve per fronteggiare l’emergenza terroristica erano i principali requisiti” da individuarsi nel successore di Leone: Pertini, combattente partigiano, è quindi la personalità più adatta a ricostruire la credibilità del Quirinale dopo gli scandali coinvolgenti il suo predecessore <269.
Nel discorso di insediamento Pertini si fa effettivamente promotore di una concezione imparziale della presidenza della Repubblica, dichiarandosi “il tutore delle garanzie e dei diritti costituzionali” e il difensore de “l’unità e l’indipendenza della nazione nel rispetto degli impegni internazionali e delle sue alleanze”. Sottolinea l’importanza dell’unificazione europea, da realizzarsi mediante l’elezione del Parlamento europeo prevista per il 1979 e del perseguimento della pace. Rendendosi garante di questi obiettivi, Pertini assicura che non è sua intenzione “valicare i poteri tassativamente prescritti[gli] dalla Costituzione, perché l’unità nazionale, di cui la [sua] elezione è una espressione, si consolidi e si rafforzi”. Tocca inoltre vari temi, quali il lavoro, la scuola, la casa, ma soprattutto l’inscindibile binomio tra giustizia sociale e libertà. Ricorda, infine, nella parte del discorso dedicata ai saluti, i compagni della lotta antifascista e della Resistenza, dei cui valori peraltro sono portatori proprio i partiti che lo hanno scelto e votato per la carica. Conclude il discorso con un proposito, che effettivamente attuerà nel corso di tutto il settennato: “da oggi io cesserò di essere uomo di parte […] intendendo essere solo il Presidente della Repubblica di tutti gli italiani” <270.
[…] La crisi del governo Andreotti si verifica in seguito a un vertice tenutosi in data 26 gennaio 1979 tra i partiti componenti la maggioranza (Dc, Pci, Psi, Psdi, Pri), in occasione del quale i leader di partito incontratisi accertano l’avvenuta dissoluzione della maggioranza a seguito dell’uscita dalla stessa del partito comunista, che rivendica un ingresso a pieno titolo nella compagine governativa <271. Andreotti, su impulso di Pertini e introducendo un elemento di forte innovazione rispetto allo svolgimento delle passate crisi di governo, presenta al Parlamento una dichiarazione politica e, al termine del dibattito svoltosi alla Camera dei Deputati, il 31 gennaio, decide di dimettersi. La crisi rimane, quindi, di natura extra-parlamentare, in quanto Andreotti teme che la discussione su un voto di fiducia avrebbe creato lacerazioni tali da rendere impossibile la ricostituzione di una coalizione di “solidarietà nazionale” <272.
Nel giro di consultazioni effettuato da Pertini si registrano le seguenti novità: a) al contrario di quanto avvenuto per la gestione delle consultazioni a partire dalla crisi del IV governo Moro (1976), il Presidente esclude dalle consultazioni i presidenti e segretari di partito non parlamentari (si verifica quindi un ritorno alla prassi precedente al 1976); b) gli ex presidenti delle Camere e gli ex presidenti del Consiglio non vengono sentiti (prassi poi consolidatasi); c) viene invertito l’ordine delle consultazioni, procedendo dai gruppi minori ai gruppi maggiori <273.
Terminato il primo giro di consultazioni, Pertini riaffida l’incarico ad Andreotti, il quale tuttavia non riesce a pervenire a un accordo con i partiti della “solidarietà nazionale” e si trova costretto a rifiutare. Senza svolgere ulteriori consultazioni, il Presidente affida l’incarico a Ugo La Malfa: per la prima volta viene designato un laico per la presidenza del Consiglio. La ragione del mancato ricorso a un secondo ciclo di colloqui risiede nel fatto che i propositi delle forze politiche sono già apparsi chiari nel corso della prima tornata: da un lato, la Dc non ha proposto altri candidati al di fuori del neo-rinunciatario Andreotti, dall’altro lato, nessun partito è favorevole al ricorso a consultazioni elettorali anticipate, ma, al contrario, le forze politiche vorrebbero ritentare la strada della “solidarietà nazionale”. Inoltre, Berlinguer profila soltanto tre ipotesi risolutive della crisi: la formazione di un governo di “solidarietà nazionale” che includa i comunisti, un governo guidato da un laico e composto da tutti i partiti democratici o un governo formato da laici e sinistre appoggiato dall’esterno dalla Dc. La scelta ricade su La Malfa in virtù dei buoni rapporti dello stesso con tutte le forze politiche, che lo rendono un idoneo elemento “unificante”, “garante” di un governo tra i due partiti di maggioranza, Dc e Pci <274. Nel corso delle trattative con le forze politiche per la formazione del governo, La Malfa, in sostanza, cerca di raccogliere consensi per un nuovo tentativo di solidarietà nazionale mediante un accurato lavoro di intermediazione e la formulazione di proposte politiche idonee a coinvolgere tanto i democristiani quanto i comunisti. Il tentativo tuttavia fallisce per l’inconciliabilità delle posizioni dei due partiti. Infatti, La Malfa non riesce ad accontentare nessuna delle due parti in causa, in quanto ai comunisti non consente una partecipazione al governo, mentre ai democristiani toglie la presidenza dell’Esecutivo senza fornire, come contropartita, la totale esclusione dei comunisti dalla piattaforma politico-governativa <275. Segue un secondo ciclo di consultazioni, al cui termine il Capo dello Stato incarica nuovamente Andreotti, sottolineando la necessità di pervenire alla formazione di un governo. Questo incarico, adombrato tra le righe da una sorta di out out (o il governo o le elezioni) del Capo dello Stato, presenta una particolarità, che desta le polemiche dei commentatori: infatti, è un incarico “a tre”, in quanto Pertini non si limita a designare Andreotti, ma convoca La Malfa e Saragat allo scopo di conferire loro l’incarico di vice-presidenti del Consiglio. Il conferimento del triplice incarico è peraltro ricco di “scivoloni”. In primo luogo, la stessa scelta di Andreotti è frutto di un equivoco: infatti, l’intenzione di Pertini è designare Saragat. Il Presidente telefona a Zaccagnini (segretario Dc) per un consulto e quest’ultimo, pensando che lo scopo della chiamata sia sondare i suoi umori in merito all’accettazione di un incarico, declina immediatamente in favore di Andreotti. Venuto a conoscenza della notizia attraverso le agenzie di stampa, il gruppo dirigente democristiano polemizza e induce il Capo dello Stato a modificare il proprio disegno iniziale, indicando per l’incarico Andreotti e per la vice-presidenza Saragat e La Malfa. Inoltre, la convocazione “inusuale” impone il necessario intervento del segretario generale del Colle, Antonio Maccanico – che in più occasioni si rivelerà un abile braccio destro nel risolvere gli errori compiuti dal Capo dello Stato. Maccanico chiede ad Andreotti di presentarsi al Quirinale qualche minuto prima dell’orario previsto, in modo da ottenere l’incarico alla presidenza del Consiglio ed evitare la contemporaneità della designazione di Primo ministro e vice-presidenti. Il segretario generale tenta in tal modo di salvaguardare, almeno sotto il profilo formale, il rispetto delle regole costituzionali: infatti, l’art. 92 Cost. affida il potere di scelta dei ministri non al Capo dello Stato, bensì al Presidente del Consiglio incaricato. Andreotti, in linea con quanto affermato dal Capo dello Stato circa l’imprescindibilità della formazione di un governo, accetta l’incarico senza riserva. Anche La Malfa accetta l’incarico e si adopera fin da subito per la formazione di un programma adeguato a risollevare le sorti del Paese. Ma Saragat subordina la sua partecipazione al governo all’ingresso nella compagine ministeriale degli indipendenti di sinistra, condizione irrealizzabile <276.
E’ a seguito di queste dinamiche che il perfezionando V ministero Andreotti si guadagna per qualcuno il titolo di “governo del Presidente”, sebbene la dottrina sia discorde sul punto <277. I partiti si dividono tra chi chiede le elezioni anticipate e chi ancora promuove la formazione di un governo di “unità nazionale”, ma il nodo della questione rimane fondamentalmente il veto posto dalla Dc a un ingresso dei comunisti al governo <278. Si forma il V governo Andreotti (Dc-Psdi-Pri), che tuttavia non ottiene la fiducia al Senato (31 marzo 1979) <279. Pochi giorni prima, il 26 marzo, Ugo La Malfa decede a causa di un ictus. Il 2 aprile Pertini firma il decreto di scioglimento anticipato delle Camere, il terzo in sette anni <280.
[NOTE]
268 Cfr. A. Baldassarre – C. Mezzanotte, op. cit., pp. 220-226; G. Mammarella – P. Cacace, op. cit., pp. 174-175; F. Damato, op. cit., pp. 117 ss.
269 G. Mammarella – P. Cacace, op. cit., p. 171.
Sandro Pertini nasce a Stella (Savona) il 25 settembre 1896. Laureato in giurisprudenza e in scienze politiche e sociali, partecipa alla prima guerra mondiale, esercita la professione forense e si dedica all’attività politica, a causa della quale nel 1926 viene condannato al confino. Riuscito a fuggire in Francia, dove peraltro viene sottoposto a ulteriori processi per la sua attività politica, torna in Italia nel 1929, ma viene nuovamente sottoposto a processo e condannato a undici anni di reclusione (ne sconterà sette e per gli altri otto, avendo rifiutato la grazia, sarà destinato al confino). Riacquistata la libertà nel 1943, entra nel partito socialista. Viene catturato dalle SS e condannato a morte, ma riesce a fuggire insieme a Giuseppe Saragat. A Milano diviene segretario del partito socialista e conduce la lotta partigiana. Si dedica inoltre all’attività giornalistica. Diviene successivamente segretario del Psi, deputato della Costituente, poi senatore e capogruppo del partito, più avanti deputato, vice-presidente e presidente della Camera. A seguito del fallimento dell’unificazione tra Psi e Psdi, rassegna le dimissioni, che tuttavia vengono respinte da tutti i gruppi parlamentari. Rassegna le dimissioni da Presidente della Repubblica nove giorni prima della scadenza, forse deluso dalla scarsa propensione delle forze politiche a sostenere una sua ricandidatura. Muore il 24 febbraio 1990 (https://www.quirinale.it; G. Mammarella – P. Cacace, op. cit., pp. 171-173; 197).
270 Per il discorso di insediamento integrale, cfr. F. Damato, op. cit., pp. 196 ss. Per alcuni commenti sul discorso di insediamento, cfr. G. Mammarella – P. Cacace, op. cit., pp. 175-176.
271 Il discorso pronunciato da Berlinguer durante l’incontro con i partiti della maggioranza è riportato integralmente in l’Unità del 27 gennaio 1979 (consultabile in ASPR, Ufficio per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali, Crisi di governo-Diari, busta 39). Per una dettagliatissima e precisa ricostruzione delle ragioni della crisi, le cui origini sono fondamentalmente da rinvenirsi nel difficile raccordo tra spinta autonomistica delle istituzioni rispetto agli schemi di partito e necessità di mantenimento dei tradizionali rapporti di forza politici che, a partire dal risultato elettorale del giugno 1976, si impone alle forze politiche, cfr. A. Manzella, op. cit., pp. 11-27.
272 Cfr. A. Baldassarre – C. Mezzanotte, op. cit., p. 246. Pertini, già da presidente della Camera, si era sempre a favore delle parlamentarizzazioni delle crisi. Pochi giorni prima del dibattito parlamentare, egli ribadisce questa convinzione al Presidente del Consiglio, affermando di non essere disposto ad accettare una crisi extra-parlamentare. La crisi in commento, “riportata nell’alveo parlamentare ma solo entro i limiti di un’autentica notarile”, è percepita da alcuni come una “occasione mancata” da parte del Presidente di far valere la sua convinzione e porre fine all’uso delle crisi extra-parlamentari, che costituiscono una “violenza alla Costituzione” e sono un’ottima via di fuga per le forze politiche che non vogliono assumere posizioni chiare di cui assumersi la responsabilità (Luigi d’Amato, Un’occasione mancata, in Vita del 2 febbraio 1979, consultabile in ASPR, Ufficio per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali, Crisi di governo-Diari, busta 39).
273 Cfr. ASPR, Ufficio per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali, Crisi di governo-Diari, busta 39. Si ricorda, inoltre, il rifiuto di Pertini di ricevere il segretario del partito radicale, il francese Jean Fabre, in applicazione del combinato disposto degli artt. 49 e 67 Cost. Infatti, mentre la Costituzione riconosce agli stranieri i diritti civili, non può dirsi altrettanto dei diritti politici. In particolare, se in mancanza di una previsione legislativa può ritenersi lecita l’iscrizione ai partiti (e lo svolgimento di cariche all’interno degli stessi) da parte di stranieri, da ciò non può conseguire un riconoscimento ai regolamenti e alle determinazioni di partito una valenza giuridico-costituzionale (ex artt. 49 e 67 Cost.). Sulla questione si apre un dibattito tra i costituzionalisti, che si dividono tra coloro che supportano la decisione del Capo dello Stato (Silvano Tosi, Paolo Biscaretti di Ruffia) e coloro che, al contrario, ritengono che l’esclusione del segretario sia un “passo falso” (Valerio Onida). Cfr. sul punto, S. Tosi, Un intruso al Quirinale, in La Nazione del 3 febbraio 1979; V. Onida, Si può consultare un segretario straniero, in Corriere della Sera del 9 febbraio 1979; P. Biscaretti di Ruffia, Non è stato un “passo falso” il rifiuto di ricevere Fabre, in Corriere della Sera del 15 febbraio 1979, consultabili in ASPR, Ufficio per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali, Crisi di governo-Diari, busta 39). Per un complessivo giudizio sulla gestione della crisi, cfr. S. Rodotà, Il Quirinale e la crisi, in La Repubblica del 9 febbraio 1979.
274 A. Manzella, op. cit., pp. 30-31.
275 Cfr. A. Baldassarre – C. Mezzanotte, op. cit., pp. 230-234. Cfr. anche A. Manzella, op. cit., 40 ss., 58 ss., il quale fornisce una dettagliata ricostruzione dello svolgimento delle trattative.
276 Cfr. G. Mammarella – P. Cacace, op. cit., pp. 178-179; A. Baldassarre – C. Mezzanotte, op. cit., pp. 235-237. La decisione presa da Pertini è vista con favore da vari studiosi. Luigi d’Amato e Giovanni Ferrara ravvisano un lodevole tentativo del Capo dello Stato di sbloccare la situazione senza ricorrere a elezioni anticipate, peraltro non adombrate dai partiti politici (cfr. L. d’Amato, Un certo stile, in Vita del 9 marzo 1979; G. Ferrara, Ha messo la crisi su una strada precisa, in il Giorno del 9 marzo 1979 consultabili in ASPR, Ufficio per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali, Crisi di governo-Diari, busta 39). Della stessa opinione è Stefano Rodotà, il quale constata un inedito spostamento del “baricentro politico […] da piazza del Gesù a piazza del Quirinale”, che trova soltanto in parte nell’autonomismo presidenziale degli incarichi di Einaudi a Pella e di Gronchi a Tambroni dei precedenti, in quanto “l’incapacità democristiana di garantire una gestione politica della crisi” non è mai stata “così evidente e paralizzante” (S. Rodotà, L’indipendente di sinistra che abita al Quirinale, in la Repubblica dell’8 marzo 1979, consultabile in ibidem, busta 39). Silvano Tosi – pur riconoscendo che questa sorta di “incarico a tre” desta perplessità in quanto di fatto sposta dall’incaricato al Presidente della Repubblica la titolarità della scelta dei vice-presidenti – si spinge anche più oltre nei giudizi positivi, ritenendo che il Capo dello Stato sia riuscito a riappropriarsi di prerogative costituzionali che nei primi trent’anni di Repubblica i partiti avevano sottratto al Quirinale, in quanto: a) ripristina di fatto i poteri presidenziali di nomina del governo e scioglimento; b) inserendo alla vice-presidenza La Malfa e Saragat, crea le condizioni per una più libera scelta dei ministri da parte dell’incaricato, c) accontenta la Dc incaricando un esponente cattolico; d) ponendo questa soluzione governativa come necessaria alla risoluzione della crisi, in sostanza delinea come unica alternativa lo scioglimento anticipato, spostandone l’eventuale responsabilità sulle forze politiche che si rifiutino di accordare la fiducia al Governo, come accadrà; e) si assicura che sarà il governo Andreotti a gestire le consultazioni elettorali (cfr. S.Tosi, Il punto costituzionale, in La Nazione dell’8 marzo 1979, consultabile in ibidem, busta 39). A parere di chi scrive, quest’ultimo punto appare particolarmente indicativo di una scelta “di principio” di Pertini tutt’altro che discutibile: infatti, il Capo dello Stato garantisce che, nel caso di elezioni anticipate, le elezioni siano affidate non a un monocolore dimissionario in virtù di una crisi extra-parlamentare (cui il Presidente si è sempre detto contrario), bensì al nuovo governo, rifiutato espressamente mediante la mancata approvazione della mozione di fiducia. In tal modo l’asse della responsabilità si sposta inevitabilmente sulle forze politiche. Del tutto a favore dell’iniziativa presidenziale sono Andrea Manzella e Paolo Armaroli. Più dura la valutazione di Baldassarre e Mezzanotte, i quali sottolineano che, nonostante il tentativo di “salvare la forma costituzionale”, “resta la grave rottura della Costituzione consumata con l’incarico per un ‘governo a tre’ divenuto poi un ‘governo a due’ ” (A. Baldassarre – C. Mezzanotte, op. cit., p. 237).
277 Il V governo Andreotti non manca di essere definito da Andrea Manzella “governo del presidente”, in quanto governo frutto di una esclusiva designazione presidenziale, sullo sfondo di una paralisi del sistema politico. L’esigenza è quella di creare un governo che consenta di fornire agli elettori l’immagine di un ritorno al binomio “governo istituzionale-governo dei partiti”: un governo che garantisca ai cittadini “la ripresa dell’intera funzionalità del sistema
nella sua componente partitica e in quella istituzionale” (A. Manzella, op. cit., pp. 116-117). Della stessa opinione sono G. Mammarella – P. Cacace, op. cit., p. 179. Ancora, Paolo Armaroli mette in luce il contributo che il Capo dello Stato fornisce alla formazione del governo, invitandolo a non rinunciare all’incarico prima di aver sentito le deliberazioni ufficiali delle direzioni dei partiti (cfr. P. Armaroli, La doppia fiducia, in Quaderni Costituzionali n. 3/1981, Bologna, il Mulino, p. 585). Armaroli ravvisa l’influenza del Capo dello Stato anche nella decisione di Andreotti di accettare l’incarico senza riserva: avrebbe preso la decisione su suggerimento di Pertini, che vuole evitare uno scioglimento anticipato delle camere (cfr. ibidem, p. 586).
278 La situazione di smarrimento dei partiti è vivacemente descritta da Giuliano Amato, che, nel ravvisare l’esigenza di una riforma istituzionale che cambi il sistema elettorale o, addirittura, la forma di governo, denuncia l’immobilismo della Dc, l’indecisione del Pci e l’incertezza dei socialisti: “i cerini cominciano a finire nelle mani del Capo dello Stato, che li maneggia con grande abilità, ma ai confini delle proprie competenze; ovvero passano nelle mani del corpo elettorale, che tuttavia viene immesso nel gioco non per decidere, ma perché non c’è altro modo di far passare il tempo” (G. Amato, Prova d’orchestra, in la Repubblica del 13 marzo 1979, consultabile in ASPR, Ufficio per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali, Crisi di governo-Diari, busta 39).
279 E’ la quarta volta nella storia della Repubblica che un governo non ottiene la fiducia iniziale del Parlamento, dopo il VIII ministero De Gasperi (1953), Fanfani I (1954) e Andreotti I (1972). Un altro caso sarà quello del governo Fanfani VI (1987).
280 Per i vari passaggi della “lunga crisi” cfr. anche G. Smurra, L’iter di formazione del V governo Andreotti: una lunga crisi “al buio” senza via d’uscita, in Aa. Vv., La nascita dei governi, I Presidenti della Repubblica tra Carta
costituzionale e prassi, Focus, in http://www.federalismi.it, n. 16/2013.
Elena Pattaro, I “governi del Presidente”, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università degli Studi di Bologna, 2015
https://bigarella.wordpress.com/2024/11/12/craxi-pensava-che-pertini-non-avrebbe-vinto-la-corsa-alla-presidenza/
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