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L’orgoglio di essere e sentirsi chiamare ribelli

L’8 settembre 1943, scrive Santo Peli, venne diffuso per radio il testo dell’armistizio firmato cinque giorni prima a Cassibile, in base al quale lo Stato italiano dichiarò formalmente di non essere più in guerra con gli anglo-americani.
La dissoluzione dello Stato fascista, con il venir meno di riferimenti non solo istituzionali, ma anche ideologici con l’onnipresenza del regime, determinò un vuoto, una sconvolgente perdita di punti di riferimento <18. Il venir meno della presenza statale, afferma Pavone, poteva essere avvertita come un senso di smarrimento o come un’occasione di libertà. Prima ancora poteva essere immediatamente vissuto come eccezionale momento di armonia in una comunità sciolta dai vincoli del potere. Lo stesso autore riporta una testimonianza lasciata da un colonnello inglese che descrisse questa esperienza: «Quando un villaggio sta per settimane in terra di nessuno, fra le nostre linee e quelle nemiche, la gente non ruba e non si ammazza, ma s’aiuta l’un con l’altro in modo incredibile. Tutto ciò è assurdo e meraviglioso. Arriviamo noi e mettiamo su gli indispensabili uffici e servizi dell’AMG (Allied Force Headquarters) e gli italiani subito si dividono, si bisticciano, si azzuffano per sciocchezze, si denunziano fra loro. La concordia di prima si disfa in faide e vendette di ogni tipo. Davvero incredibile» <19.
Questa è la situazione che riporta Pavone durante i quarantacinque giorni di totale confusione dopo l’armistizio, affermando che però, tale situazione non era ancora definibile come prima fase resistenziale <20. Battaglia, come già detto, protagonista attivo di questo periodo storico, sostiene che è difficile individuare un momento preciso della nascita della resistenza armata. In una situazione che versava completamente nel caos, emersero le prime formazioni di nuclei partigiani, ma si trattava solo di primi focolai di Resistenza, formati da gruppi di sbandati e da reparti militari in disfacimento <21. Tuttavia nel momento in cui le truppe tedesche cominciarono a formalizzare la loro violenza e quando, subito dopo, i fascisti crearono la Repubblica sociale, quando cioè il vuoto istituzionale fu in qualche modo riempito da un diverso sistema di autorità, la scelta da compiere, dichiara Pavone, divenne più dura e drammatica: per la prima volta nella storia dell’Italia unita gli italiani vissero in varie forme un’esperienza di disobbedienza di massa. Il fatto era di particolare rilevanza educativa per la generazione che nella scuola elementare aveva dovuto imparare a memoria queste parole del libro unico di Stato: «Quale deve essere la prima virtù di un balilla? L’obbedienza! E la seconda? L’obbedienza! E la terza? L’obbedienza!» . Il significato primo di libertà che assunse la scelta <22 resistenziale era implicito nel suo essere un atto di disobbedienza verso chi aveva la forza di farsi obbedire. A tal proposito Battaglia scrive che il primo periodo della vita partigiana sarebbe stato caratterizzato da questo senso gioioso di fare da sé, di avere finalmente rotto ogni vincolo con la vita civile del regime fascista che tante amarezze e dolori aveva dato: si trattava dell’orgoglio di essere e sentirsi chiamare ribelli <23.
Peli afferma che nella società italiana la vita dei partiti politici era cessata con l’instaurarsi del regime fascista. Con il parziale ritorno alla libertà, nell’agosto del 1943, sono circa 3.000 i militanti comunisti rilasciati dalle carceri e dal confino. L’organizzazione comunista, di fatto l’unica già esistente, basata su quadri e disciplina lungamente sperimentati, fu la più tempestiva nel cogliere le nuove opportunità; già dal ’42 infatti riprese una nuova edizione clandestina del quotidiano comunista «l’Unità». Anche per quanto riguarda gli scioperi del marzo ’43, il Pci si mostrò il partito più preparato a dirigere le masse operaie. La Democrazia cristiana, partito destinato a diventare, assieme al Pci, uno dei due grandi partiti di massa del dopoguerra, conobbe tra il ’42 e il ’43 una lunga fase di gestazione, praticamente assente nelle agitazioni di marzo su citate. La storia del gruppo dirigente <24 della Dc, a giudizio dell’illustre politologo Giorgio Galli, tra l’8 settembre ’43 e il 25 aprile ’45 è la storia di un gruppo dirigente la cui linea generale fu di attendere la completa liberazione del territorio nazionale da parte degli eserciti
anglo-americani, dedicandosi all’organizzazione di un partito che trova nelle parrocchie e nell’Azione cattolica i suoi principali punti di riferimento organizzativi <25. Dello stesso giudizio è anche Magister, il quale afferma che l’adesione alla Dc di militanti della lotta di liberazione sarebbe stato un fenomeno diffuso, ma sarebbe restata sempre una scelta estranea a qualsiasi linea della Chiesa e del partito. Infatti, all’indomani dell’8 settembre, le varie organizzazioni cattoliche tennero a Roma un vertice. La riunione si chiuse con un nulla di fatto: alla tesi di un’immediata adesione alla lotta partigiana sostenuta dai cattolici comunisti, la Dc contrappose la parole d’ordine dell’attesismo, nella previsione di un intervento rapido e decisivo degli eserciti alleati <26.
Il 9 settembre 1943, il Comitato nazionale delle opposizioni assunse la denominazione di Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) e lanciò un appello per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza e per riconquistare all’Italia il posto che le competeva nel consesso delle nazioni libere e democratiche <27.
Peli sottolinea che l’inverno ’43 fu ancora la stagione del dubbio, ma la Resistenza già nell’estate del ’44 avrebbe conquistato consistenza, coesione e notevole capacità operativa. Le tappe fondamentali di questo consolidamento furono costituite dalla “svolta di Salerno”, nell’aprile ’44, e dalla costituzione del Comando generale del Corpo Volontari della Libertà (Cvl), un paio di mesi dopo. La svolta di Salerno ebbe un’importanza vitale per il percorso della Resistenza. Ma, come scrive lo stesso Battaglia, prima ancora dell’azione che avrebbe svolto Togliatti, si realizzò un’altra attività, meno clamorosa, volta a superare le posizioni di intransigentismo ideologico promossi dal Congresso di Bari del Cln: l’opera di conciliazione e di mediazione di Benedetto Croce, coadiuvato da Enrico De Nicola. Come il giurista spiegò al filosofo, non ci sarebbe stato bisogno di un’abdicazione effettiva, ma sarebbe bastato che il re
delegasse i suoi poteri a un luogotenente e in tal modo egli sarebbe sparito dalla scena appagando l’ira “giacobina” del Cln <28. Anche Peli giudica la “svolta di Salerno”, ovvero la decisione del leader del Partito comunista Palmiro Togliatti di proclamare irrealistica la pregiudiziale antimonarchica che aveva congelato in uno sterile muro contro muro il governo del Sud e il Cln, un momento decisivo. Secondo Togliatti, era ormai indispensabile varare un governo di unità nazionale, inserendo i partiti politici antifascisti in un governo che si sarebbe impegnato a fondo nella lotta di liberazione, garantendo per il dopoguerra il diritto popolare a scegliere tra monarchia e repubblica. Peli pone l’accento su questo cambio di rotta improvviso, dovuto al prolungato soggiorno di Togliatti in Unione Sovietica e soprattutto al suo incontro, pochi giorni prima del rientro in Italia, con Stalin <29, che gli avrebbe suggerito di assumere questa nuova linea politica. Ma Peli non è l’unico ad avanzare una tesi del genere: anche lo storico Massimo Legnani, in «Resistenza e repubblica. Un dibattito ininterrotto», afferma che Togliatti assecondò la politica estera sovietica, che come vedremo al prossimo capitolo, aveva già dato per scontato l’inserimento dell’Italia nella sfera d’influenza anglo-americana. Un atteggiamento moderato da parte dell’Urss che di fatto tese a giustificare il suo futuro progetto politico nell’Europa orientale e balcanica. Oltre agli interessi della politica <30 estera sovietica però, esisteva anche l’interesse da parte di Palmiro Togliatti per il progetto politico da proporre al suo partito una volta rientrato in Italia, il quale, come scrive Alexander Höbel, era in porto già da diversi anni <31. Infatti al suo rientro, Togliatti affermò che la priorità sarebbe stata quella di liberarsi dai nazi-fascisti, unendo dunque tutte le forze antifasciste e “nazionali”. Poi precisò che l’obiettivo dei comunisti era quello di costruire un “regime democratico e progressivo”, una “nuova democrazia” che avrebbe sradicato il Paese dal fascismo e gli avrebbe dato una nuova Costituzione <32.
I partiti antifascisti compresero l’importanza di questa “svolta” e di fatto l’accettarono. Dinanzi ad atteggiamenti diffidenti di alcuni partiti politici, Togliatti intervenne impostando la questione in questo modo: «Nessuna libertà potrà essere garantita al popolo italiano fino a che i nazisti non saranno cacciati dal territorio nazionale. Bisogna quindi intensificare lo sforzo di guerra per liberare il paese. Costituiamo dunque un governo di unità nazionale e in tal modo faremo fare anche un passo notevole alla situazione» <33. Il leader del Pci dimostrò che bisognava uscire da una situazione caratterizzata dall’esistenza da una parte, di un governo investito del potere ma privo di autorità perché privo dell’adesione dei partiti di massa, dall’altra parte di un movimento di massa autorevole, quale il Cln, ma escluso dal potere. Di conseguenza, era di fondamentale importanza varare un governo di unità nazionale. Secchia mette in evidenza come l’iniziativa di Togliatti “scoppiò come una bomba” suscitando negli altri partiti della giunta e del Cln vivaci discussioni, ma i più non poterono disconoscerne il realismo; ne accettarono l’impostazione e comunque ne subirono l’influenza <34.
Tra l’autunno del ’43 e la primavera del ’44, scrive Peli, le formazioni partigiane dell’Italia centrale risultarono incapaci di coinvolgere le masse popolari nella guerra di liberazione, come stava invece avvenendo al Nord: la liberazione di Roma fu opera degli Alleati. Unica eccezione risultano le “Quattro giornate di Napoli”: un’insurrezione spontanea, frutto dell’esasperazione popolare, che portò alla liberazione della città prima dell’arrivo delle truppe anglo-americane. Per la prima volta i “lazzari si schierarono dalla “parte giusta” comprendendo dove stava la barbarie e dove la civiltà <35. Mentre la mancata difesa di Roma rappresenta, a giudizio di molti storici, uno dei limiti della Resistenza. Peli riconduce questo fallimento a più cause: debolezza e divisione interne del Cln romano, mancanza di una classe operaia e atteggiamenti favorevoli al compromesso sostenuti anche dal Vaticano <36. Proprio il Vaticano, per Battaglia, è l’attore principale della mancata insurrezione di Roma <37. Della stessa opinione è Pietro Secchia, sostenendo che le principali cause della mancata insurrezione della capitale sarebbero da ricondurre al prevalere nella città delle correnti moderate ed attesiste contrarie praticamente all’intervento delle masse nella lotta e soprattutto contrarie all’insurrezione. Vaticano, monarchia, Stato maggiore, alta burocrazia: le forze che secondo lo storico comunista avevano collaborato al 25 luglio e che disponevano nella capitale di importanti posizioni sociali e politiche, di larghi mezzi finanziari e di una salda base organizzativa e logistica. Tra tutte questi componenti un’azione di gran peso sarebbe stata svolta dal Vaticano che non risparmiò gli sforzi per impedire che la resistenza contro le forze di occupazione sfociasse nell’insurrezione. Il pontefice in persona, Papa Pio XII, aveva pubblicamente espresso il suo pensiero, parlando il 12 marzo ad una grande folla che gremiva piazza San Pietro: «Come potremmo noi credere che alcuno possa mai tramutare Roma, che appartiene a tutti i tempi ed a tutti i popoli, ed alla quale il mondo cristiano e civile tiene fisso e trepido lo sguardo, di tramutarla in un campo di battaglia, in un teatro di guerra, perpetrando così un atto militarmente inglorioso quanto abominevole agli occhi di Dio e di una umanità cosciente dei più alti e intangibili valori spirituali e morali?» <38. La folla reagì accogliendo le frasi del pontefice e gridando “viva la pace, fuori i tedeschi”. <39
[NOTE]
18 Santo Peli, Storia della Resistenza in Italia, Torino, 2015 (I ed. 2006), pp.14-15.
19 Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, 1991, p.23.
20 Ivi, pp.24-25.
21 Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, 1964 (I ed. 1953), pp.134-137.
22 Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, 1991, pp.27-30.
23 Roberto Battaglia, op. cit., pp.188-189.
24 Santo Peli, op. cit., p.39
25 Giorgio Galli, Storia della Democrazia cristiana, Bari, 1978, p.38.
26 Sandro Magister, La politica vaticana e l’Italia 1943-1978, Roma, 1979, p.37.
27 Santo Peli, op. cit., pp.37-42.
28 Roberto Battaglia, op. cit., pp.250-253.
29 Santo Peli, op. cit., pp.79-83.
30 Massimo Legnani, Repubblica e Resistenza. Un dibattito ininterrotto, in Italia Contemporanea, dicembre 1988, n.213, pp.819-823.
31 Alexander Höbel, La democrazia progressiva nell’elaborazione del Pci. Un’anticaglia?, in Historia Magistra, giugno 2013, n.18, pp.1-13.
32 Ibidem.
33 Pietro Secchia, op. cit., p.395.
34 Ivi, pp.396-397.
35 Ivi, p.256.
36 Santo Peli, op. cit., pp.57-59.
37 Roberto Battaglia, op. cit., pp.234-236.
38 Pietro Secchia, op. cit., pp.434-438.
39 Ibidem.
Marco Cerotto, Il ruolo del Pci dalla Resistenza alla Costituzione repubblicana, Tesi di laurea, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Anno Accademico 2016-2017

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La storiografia che recentemente si è occupata di ricostruire la storia politica degli anni Settanta ha prevalentemente individuato le origini della nuova sinistra nella reazione di alcuni intellettuali dopo la svolta del 1956 <5.
Un’interpretazione di questo genere, se ha giustamente nobilitato l’elemento disgregante che soprattutto la critica allo stalinismo provocò sulle intelligenze di sinistra, ha però dimenticato di considerare in profondità il peso che un altro aspetto, non meno incisivo, ebbe in generale su tutta la militanza comunista e non solo su un’avanguardia illuminata. Mi riferisco alla scelta compiuta da Togliatti di sostituire ad una rivoluzione condotta per via insurrezionale, sogno toccato con mano durante la Resistenza ma proibito già durante la Ricostruzione, una promossa all’interno della legalità costituzionale secondo la nota ed ambigua formula della «democrazia progressiva». Di tale aspetto, è vero, non mancano certo insistenti accenni; ma il carattere scontato di tali richiami ha impropriamente celebrato una formazione troppo elitaria della nuova sinistra, rischiando di compromettere un giudizio maturo tanto in riferimento alle sue origini quanto in relazione ai suoi sviluppi.
È da qui, ritengo, che occorre partire per comprendere come una delle radici fondamentali del Sessantotto, quella indubbiamente più radicale, abbia avuto sì un’origine intellettuale ma non slegata da eventi storici e da soggetti sociali non sempre e non solo ideologicamente orientati. Occorre dunque analizzare con maggiore attenzione la giustificazione teorica che il Partito comunista diede alla teleologia della sua azione politica nell’Italia repubblicana: una rivoluzione sociale costruita per mezzo di un partito nuovo che fece dell’applicazione dei princìpi costituzionali la sua piattaforma programmatica.
La proposta di rinunciare non tanto alla rivoluzione quanto a quella forma di rivoluzione conosciuta – proposta che, come vedremo, non mancò affatto di una sottile giustificazione dottrinaria – ebbe effetti eterogenei. Se da una parte essa raccolse l’appoggio più o meno convinto di una classe operaia come quella degli anni Cinquanta, non ancora alienata dai processi di trasformazione produttiva indotti dal modello fordista, dall’altra non cancellò affatto una certa predisposizione all’insurrezione a cui, in più di un’occasione, ex partigiani, militanti di partito, operai e anche giovani si dimostrarono pronti. Non solo dunque il 1956, ma anche la ripetuta visibilità di tale predisposizione, accompagnata inoltre dalla compatibile esperienza di alcuni eventi internazionali, mise in atto un meccanismo di recupero di quella volontà rivoluzionaria che spinse in avanti alcuni intellettuali e si espresse nelle ricche esperienze editoriali di riviste poi ideologicamente determinanti per i gruppi della nuova sinistra di fine anni Sessanta.
Il percorso che si intende seguire in questo capitolo muove dunque da questa esigenza: un riposizionamento qualitativo delle origini della nuova sinistra che raccoglie in un respiro accettabilmente più sistematico la dinamica centrifuga che la proposta della nuova linea politica togliattiana ebbe nei confronti dei militanti e che mostra come contemporaneamente i soggetti che da essa si allontanarono, proprio raccogliendo un’esigenza latente, mantennero in vita un’altra idea di rivoluzione. La permanenza sul lungo periodo di questo desiderio, che troverà nel neocapitalismo un nemico scontato e nel Partito comunista un avversario inatteso, sarà dunque uno degli aspetti determinanti che esploderanno con forza dirompente nel Sessantotto.
La linea politica di Togliatti
Da un punto di vista storico si può affermare che nei primi dieci anni dell’Italia repubblicana la linea politica del Pci rimase sospesa nel dubbio che le posizioni di sostegno alla democrazia, espresse in ripetute occasioni da Palmiro Togliatti, fossero solo una tattica surrettizia per nascondere una strategia rivoluzionaria. Tale dubbio non attraversava solamente militanti pieni di speranza ma, data soprattutto la situazione internazionale di guerra fredda, preoccupava non poco anche gli avversari politici.
In merito a ciò, sono due le congiunture nelle quali la linea politica del Partito comunista cerca di essere sistematizzata: la prima riguarda il periodo 1944-1945, quando la fine della guerra impone una riflessione sulla opportuna fisionomia che il Pci avrebbe dovuto assumere in vista della fase di ricostruzione del paese; la seconda giunge circa dieci anni più tardi, nel 1956, ed è effetto del dibattito stimolato dal XX Congresso del Pcus e del «rapporto segreto» su Stalin. In entrambi i casi, due congressi provarono a sciogliere il dubbio sulla linea politica del partito, linea che, pur rinnovata nel 1945, era rimasta ugualmente prigioniera in un limbo che confondeva osmoticamente tattica e strategia, alimentando così fantasie rivoluzionarie.
L’analisi di questi due momenti ci permetterà di comprendere quali spazi questo nodo gordiano aprirà alla sinistra del Pci.
Tra il 1944 ed il 1945 Togliatti si era preoccupato di indicare chiaramente quali fossero le priorità che le organizzazioni di partito avrebbero dovuto seguire durante la guerra di liberazione. Così scriveva nel giugno 1944: “Ricordarsi sempre che l’insurrezione che noi vogliamo non ha lo scopo di imporre trasformazioni sociali e politiche in senso socialista o comunista, ma ha come scopo la liberazione nazionale e la distruzione del fascismo. Tutti gli altri problemi verranno risolti dal popolo, domani, una volta liberata l’Italia tutta, attraverso una libera consultazione popolare e l’elezione di un’Assemblea costituente” <6.
Il segretario del Pci aveva inoltre insistito sulla necessità di combattere per la democrazia e di costruire un partito nuovo: “Noi vogliamo una democrazia combattiva, che difenda la libertà distruggendo le basi oggettive della tirannide fascista e quindi rendendo impossibile ogni rinascita reazionaria, una democrazia che sia attivamente antifascista e antimperialista e perciò veramente nazionale, popolare e progressiva. […] Il partito nuovo che noi vogliamo creare tende inevitabilmente a essere, e dovrà dunque essere, il partito unico della classe operaia e dei lavoratori italiani, sorto dalla fusione delle correnti politiche proletarie attualmente esistenti, le quali non potranno fare a meno di portarvi, insieme con la loro forza numerica, organizzativa e politica, quegli elementi della loro tradizione che corrispondono ai compiti nuovi che stanno davanti a noi” <7. Una formazione politica unica della classe operaia e dei lavoratori italiani con lo scopo di costruire così, senza rinunciare ai princìpi del marxismo-leninismo, una democrazia popolare e progressiva, dunque.
La scelta di questa strategia si giustificava sulla base di due elementi, uno di carattere contingente e l’altro di carattere teorico. A guerra ancora in corso, il carattere contingente dipendeva dal contesto bellico internazionale: insistendo sull’obiettivo dell’unità nazionale, della lotta contro il nazifascismo e della liberazione dell’Italia, la «svolta di Salerno» del 1944 dava attuazione a quella politica di fronti popolari lanciata nel 1935 dal VII Congresso del Comintern e, più materialmente, era legata all’impossibilità di una rivoluzione socialista in una fase in cui gli Alleati occupavano il territorio italiano.
Più interessante è sottolineare l’elemento teorico che fondava la linea di Togliatti. Questi aveva infatti ben compreso quanto dense di verità fossero le riflessioni di Gramsci circa la realizzabilità di una rivoluzione socialista nei paesi occidentali nelle stesse forme con le quali essa si era realizzata in Russia dopo la Grande Guerra: mentre in Oriente il carattere ancora incipiente della società civile aveva reso più facile prendere il potere per via insurrezionale, in Occidente il carattere sostanzialmente maturo di quest’ultima rendeva preferibile intraprendere una strada diversa, una «guerra di posizione» lenta e prolungata, portata avanti per mezzo di un’egemonia culturale costruita all’interno di quella stessa società <8. Ma se durante la guerra di liberazione quella formulazione poteva ancora apparire come una tattica – combattere per la democrazia per fare poi la rivoluzione – e per di più impreziosita dall’influenza del pensiero di Gramsci, a suggellare definitivamente la linea togliattiana di lotta per la «democrazia progressiva» fu l’approvazione durante i lavori del V Congresso del Pci, svoltosi a Roma tra il 29 dicembre 1945 ed il 5 gennaio 1946, del nuovo Statuto del partito, di cui l’art. 1 chiariva le finalità: “Il Partito comunista italiano è l’organizzazione politica dei lavoratori italiani i quali lottano in modo conseguente per la distruzione di ogni residuo del fascismo, per l’indipendenza e la libertà del paese, per la edificazione di un regime democratico e progressivo, per la pace dei popoli, per il rinnovamento socialista della società” <9.
Il concetto della «democrazia progressiva» usciva così da quella doppia interpretabilità generata dalla contingenza della guerra per diventare parte giuridica del documento fondante del Partito comunista eliminando – quantomeno formalmente – i dubbi circa gli obiettivi dei comunisti: costruire un partito nuovo e combattere all’interno della legalità democratica per un rinnovamento in senso socialista. Ciò appariva tanto più opportuno se si considera che tutto questo avveniva in un contesto di gestazione istituzionale che richiedeva una certa maturità politica affinché un forza come quella del Pci, globalmente percepita come eversiva, potesse partecipare, e da protagonista, alla fase costituente che di lì a poco si sarebbe aperta.
Quello che qui preme osservare è che non solo il concetto di «democrazia progressiva» rimase alquanto sfuggente nel suo significato preciso – aspetto che più volte è stato sottolineato dagli storici <10 –, ma che, proprio per questo, la reazione di alcune componenti del Pci tese o a mostrarsi piuttosto critica nei confronti di una formulazione che sembrava abbandonare definitivamente l’ipotesi rivoluzionaria iniziata con la Resistenza, o – e ciò valse prevalentemente per alcuni quadri del partito – a aderire alla linea del Pci ma continuando a credere che quella scelta fosse ancora identificabile come un’astuzia tattica, non come la strategia <11.
Ma al V Congresso la linea togliattiana fu comunque prevalente e il nuovo Statuto venne approvato a maggioranza. La fisionomia politica con la quale il partito guidato da Togliatti si presentava all’inizio del 1946 era dunque quella di una formazione politica che, pur non rinunciando ai princìpi del marxismo-leninismo, aveva accettato di muoversi nella legalità democratica e di combattere, all’interno di essa, in nome di una trasformazione socialista della società stessa. La linea togliattiana trovava prevalentemente l’appoggio del partito anche se una parte di esso rimaneva apertamente critica e intimamente convinta della realizzabilità di un’altra soluzione.
Nel 1956 nove anni di opposizione parlamentare senza dubbio valsero al Pci l’onore della credibilità di posizioni che, allora, attendevano ancora l’onere della prova. Ma ad offrire o, meglio, a costringere ad un’ulteriore fase di chiarimento della strategia comunista fu prima il XX Congresso del Pcus, tenuto a Mosca tra il 14 e il 25 febbraio, e successivamente la pubblicazione, il 4 giugno sul «New York Times», del «rapporto segreto» di Chrušcëv sui crimini commessi da Stalin <12. Posto davanti al rischio di una profonda crisi del movimento comunista italiano, Togliatti rispose in due tempi cercando di frenare l’effetto potenzialmente disgregante che soprattutto il «rapporto segreto» avrebbe potuto generare e che in parte generò. Ora, l’urgenza di frenare la reazione centrifuga non accecò gli occhi del segretario del Pci il quale comprese la grande occasione che quella circostanza gli avrebbe dato. Le argomentazioni sostenute da Togliatti, infatti, non solo seguivano l’intento di rafforzare la giustificazione della via italiana al socialismo ma soprattutto – ed è questo l’aspetto che qui preme più evidenziare – gli permisero di elaborare una tesi volta a dimostrare come la scelta di una via italiana al socialismo si ponesse in perfetta e coerente continuità sia con la storia stessa dell’Unione Sovietica depurata dalla degenerazione stalinista, sia con l’ideologia leninista.
Occorre in primo luogo ricordare che uno degli aspetti più significativi del XX Congresso fu l’affermazione fatta da Chrušcëv riguardo al superamento della dottrina marxista-leninista circa l’inevitabilità della guerra contro il capitalismo. Affermando la possibilità di una coesistenza pacifica tra sistemi economici diversi, il segretario del Pcus non rinunciava affatto a combattere ideologicamente il capitalismo ma affidava alla «superiorità intrinseca» del socialismo la garanzia di una sua certa vittoria. Non solo la guerra non era più inevitabile, ma in quell’occasione Chrušcëv andò oltre, riconoscendo (un riconoscimento in odore di inevitabile concessione data la divergenza con la Jugoslavia di Tito e la Cina popolare) come potessero esserci nuove forme di passaggio verso il socialismo, non necessariamente identiche a quelle che avevano caratterizzato l’Unione Sovietica <13. Entrambe le posizioni – soprattutto la seconda – andavano logicamente a corroborare la scelta compiuta dal Pci di una via nazionale al socialismo. Tuttavia l’operazione con cui Togliatti cercò di rafforzare ulteriormente tale posizione fu molto più sottile poiché, consapevole dei destinatari precisi cui quel riconoscimento si indirizzava, si addentrò in una rilettura della storia dell’Urss nell’intento di dimostrare l’inevitabile evoluzione democratica, storicamente determinata, del sistema sovietico in assenza delle storture dello stalinismo.
Il primo passaggio della tesi di Togliatti muove dal tentativo di ricostruire le modalità attraverso le quali fu reso possibile lo stalinismo in Unione Sovietica. Rifiutando la spiegazione monocausale proposta dai sovietici legata al culto della personalità del dittatore, nell’intervista rilasciata a «Nuovi argomenti» del giugno 1956 Togliatti evidenzia la necessità di una «attenta indagine del modo come al sistema caratterizzato dagli errori di Stalin si giunse» <14. Sia pur lasciando la verità dell’ultima parola ai compagni sovietici, tale richiamo gli permette di ipotizzare che l’origine dello stalinismo sarebbe consistita in una degenerazione patologica di una necessità fisiologica: la «centralizzazione del potere» e «l’adozione di misure repressive radicali per schiacciare la controrivoluzione» dopo il 1917 finirono per riprodursi successivamente, anche dopo la loro necessità storica, e furono sapientemente dirette da Stalin, le cui capacità furono tali che anche le forze sane del partito che vi si riunirono intorno «non poterono più opporsi quando incominciarono a venire alla luce le cose cattive». Era dunque «dal partito» che, secondo Togliatti, «ebbero inizio le dannose limitazioni del regime democratico» <15.
Questa riflessione veniva ripresa ed approfondita pochi mesi dopo all’VIII Congresso del Pci, tenutosi a Roma tra l’8 ed il 14 dicembre, in una situazione meno tesa ma certamente non meno complessa. Il ragionamento geometrico muoveva dall’importanza del XX Congresso e del «rapporto segreto» circa «la strategia e la tattica del movimento comunista: l’affermazione della possibilità di evitare la guerra in conseguenza delle modificazioni stesse della struttura del mondo, il riconoscimento della possibilità di un’avanzata verso il socialismo che escluda la violenza insurrezionale e si compia nell’ambito della legalità democratica, utilizzando anche gli istituti parlamentari» <16. Rifiutando così la
«trasposizione meccanica» dell’esperienza sovietica ai paesi che lottavano per il socialismo, Togliatti parlava di «sviluppi creativi» pur rimanendo dentro ad uno spazio di legittimità ideologica: “La indispensabile ricerca da parte di ciascun partito di una propria via di avanzata e lotta per il socialismo, nonché di una propria via di sviluppo interno, esige autonomia di ricerca e di giudizio nella applicazione alle situazioni nazionali dei princìpi del marxismo-leninismo che sono la nostra guida. Questi stessi princìpi non sono un dogma. Ci forniscono un metodo, seguendo il quale noi siamo in grado di intendere la realtà, di adeguare ad essa la nostra azione, e attraverso l’azione sviluppare gli stessi princìpi e scoprire nuove leggi regolatrici della creazione di un mondo socialista […]. Tener fede ai princìpi e da essi dedurre tutto ciò che è necessario per il nostro rinnovamento, questo è il compito che oggi sta davanti a tutti noi” <17.
Ora, la forza di questa posizione – che si sarebbe concretizzata in quella stessa occasione nell’espressione «unità nella diversità» – veniva a fortiori confermata dal completamento del ragionamento aperto da Togliatti proprio qualche mese prima. Il segretario del Pci esprimeva, in modo ora chiaro e distinto, l’inevitabilità della democrazia sovietica qualora essa non fosse stata annientata dalle azioni compiute da Stalin. Riferendosi alla storia dell’Urss, Togliatti ribadiva che quando “la evoluzione della base economica era già arrivata a un punto che consentiva ed esigeva una estensione della vita democratica, questa non venne attuata, e si ebbero invece restrizioni e chiusure artificiali.
Qui mi pare stia la chiave che spiega come in una società socialista, il cui carattere sostanzialmente democratico risulta anche solo dalla continua iniziativa, dall’attività e dalla creazione economica e politica delle masse popolari anche nelle condizioni più difficili, la democrazia poté subire, nel partito e fuori di esso, le violazioni e limitazioni che oggi si denunciano” <18.
Qual era la forza implicita che si nascondeva dietro un’argomentazione così sottile? Sostenere che, in assenza delle storture compiute dallo stalinismo, anche l’Unione Sovietica si sarebbe storicamente determinata come società democratica significava fondare la scelta di una via italiana al socialismo costruita nella legalità democratica per mezzo di una legittimazione che si inseriva in ideale continuità con la storia stessa dell’Urss, soprattutto ora che il XX Congresso aveva mostrato il coraggio di denunciare e correggere proprio quelle storture. In sostanza, significava non rinunciare alla forza dell’esempio ma, in forza dell’errore dell’esempio, imitarlo con genuina originalità. Di conseguenza, questa formulazione permetteva a Togliatti di togliere forza a chi continuava a pensare che quella del Pci fosse una tattica democratica per una strategia rivoluzionaria.
[NOTE]
5 Indicazioni di questo genere si trovano, passim, nei lavori di D. Breschi, Sognando la rivoluzione. La sinistra italiana e le origini del ‘68, Mauro Pagliai Editore, Firenze 2008; G. De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria, Feltrinelli, Milano 2009; A. Ventrone, “Vogliamo tutto”. Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione 1960-1988, Laterza, Roma-Bari 2012.
6 P. Togliatti, Le istruzioni alle organizzazioni di partito nelle regioni occupate, in Id., Opere scelte, a cura di G. Santomassimo, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 331-332.
7 P. Togliatti, Partito nuovo, in «Rinascita», 1944, 4, in ivi, pp. 372-373.
8 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino 2006, pp. 51-57.
9 Statuto del Pci, approvato al V Congresso (29 dicembre 1945 -5 gennaio 1946), citato in A. Vittoria, Storia del Pci. 1921-1991, Carocci, Roma 2006, pp. 60-61.
10 Cfr. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, cit., pp. 52-53.
11 Vittoria, Storia del Pci, cit., p. 59. In particolare, si vedano le posizioni assai critiche di Secchia sulla costruzione del «partito nuovo»; cfr. ivi, pp. 63-64.
12 Il «rapporto segreto» fu pubblicato in Italia da «Il Punto» il 9 giugno.
13 Cfr. E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali. 1918-1999, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 851-852.
14 P. Togliatti, Intervista a «Nuovi argomenti», in «Nuovi argomenti», 1956, 20, in Id., Opere scelte, cit., p. 715.
15 Ivi, p. 717.
16 P. Togliatti, Rapporto e conclusioni all’VIII Congresso nazionale del Pci, in Id., Opere scelte, cit., p. 786.
17 Ivi, pp. 792-793.
18 Ivi, p. 798.
Andrea Bertini, Una sola moltitudine. Rivoluzione e modernizzazione alle origini del Sessantotto, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2013-2014

https://collasgarba.wordpress.com/2024/11/05/il-nodo-gordiano-che-aprira-spazi-alla-sinistra-del-pci/

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A quanto pare il nostro corpo ha un orologio biologico segreto, e suona una bella sveglia per due volte. Un nuovo studio di Stanford rivela cambiamenti molecolari drastici a 40 e 60 anni, smontando la nostra concezione dell'invecchiamento come fenomeno graduale. La medicina preventiva si orienterà intorno a queste due grandi "svolte" per prevenirle e allontanarle?

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