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#dopoguerra

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La nuova pubblicazione della collana " di storia" rilegge un evento fondamentale della italiana del secolo scorso - la caduta della - con una lente nuova, quella della : in particolare, il volume indaga la disgregazione del sistema del e l’ascesa della , fenomeni ricondotti al diffondersi dell'insoddisfazione, nel , verso i tradizionali e lo centrale

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Palermo 1948, la forza di ricominciare

#silentsunday

Il dopoguerra rappresenta uno dei periodi più complessi e significativi della nostra storia, le città erano ridotte in macerie, le economie distrutte e intere famiglie spezzate dalla perdita di parenti e amici.

Il paesaggio era un mosaico di rovine e il morale collettivo era segnato da anni di privazioni, paura e lutti.

Eppure, proprio in questo scenario di devastazione, emerse una straordinaria forza d'animo, le persone si rimboccarono le maniche, trovando nel dolore una ragione per andare avanti, per ricostruire non solo case e città, ma anche il senso della comunità e della speranza.

La ripresa economica e sociale fu un processo lungo e faticoso, e, al di là degli sforzi collettivi dei governi, fu la forza interiore dei singoli individui a fare la differenza, ogni persona doveva affrontare il proprio dolore e trovare la motivazione per andare avanti.

Per molti, la speranza di un futuro migliore, il desiderio di garantire ai propri figli una vita diversa, o semplicemente la necessità di sopravvivere furono stimoli potenti. La solidarietà tra vicini, l’aiuto reciproco e il senso di appartenenza a una comunità diventarono pilastri su cui costruire una nuova vita.

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Donatella Della Porta ed Herbert Reiter hanno inserito la tradizione di ordine pubblico e la riorganizzazione della polizia in Italia, dopo il fascismo, in quella corrente che gli studi hanno definito della ‘King’s Police’, la ‘Polizia del Re’: uno o più apparati polizieschi che hanno come compito principale la protezione non della Costituzione, ma del governo e dello Stato, attraverso l’adozione principale di strategie preventive e repressive. La ‘polizia del Re’ è posta in contrapposizione all’altra tradizione, di matrice nord europea, della ‘polizia di comunità’, il cui ruolo principale, al contrario, è la protezione dei cittadini e la priorità della legge fondamentale anche sull’azione di governo e apparati statali. <596 Sebbene questa separazione sia, dal nostro punto di vista, troppo netta, possiamo comunque dirci d’accordo sul fatto che le forze dell’ordine italiane rientrano appieno in un modello organizzativo e giuridico più integrato alle necessità politiche del governo e meno (o per niente) alla società civile.
Sono tre gli elementi che interagiscono sulle modalità di organizzazione e azione delle forze dell’ordine: quadro normativo, princìpi organizzativi e cultura professionale; queste variabili sono imposte dall’esterno, dalla classe dirigente basandosi sulla propria cultura, ma dopo una prima fase di assestamento diventano parte integrante della cultura di polizia, che si alimenta e sviluppa da sé.
Da questo punto di vista, partendo dagli elementi di cultura politica che diventa egemone nel secondo dopoguerra, il rapporto principale delle forze dell’ordine con la popolazione è sul terreno del conflitto sociale. Utilizziamo i tre parametri sopra indicati per sviluppare la nostra descrizione della polizia come principale ‘strumento del Re’ nel dopo-Liberazione e all’inizio della Repubblica. La necessità principale cui devono far fronte i primi governi unitari dopo la guerra è precisamente il ristabilimento del controllo, territoriale e politico, da parte dello Stato; contro questo obiettivo si poneva la situazione oggettiva di un apparato poliziesco e militare debole, screditato, disorganizzato, in crisi materiale (mezzi, uomini, risorse). Di fronte a Giuseppe Romita, il più volte citato ministro dell’Interno, che per primo deve affrontare seriamente queste difficoltà oggettive, si presentano allora due altre variabili e una scelta dettata dall’emergenza: quali strumenti legislativi e quali uomini sono a disposizione, non potendo e non volendo ripartire da zero.
“Nell’immediato dopoguerra la complessa operazione per la ricostituzione e riorganizzazione delle forze dell’ordine era stata imposta e condotta a notevoli risultati dal già ricordato socialista Giuseppe Romita […]. Questi aveva avviato a ricomporsi in un corpo organico un personale di agenti e funzionari disperso ed avvilito, variamente dislocato sul territorio nazionale in precarie e pressoché casuali formazioni, sul quale aveva agito, spesso con effetti sconvolgenti sulla mentalità e sul codice dei valori professionali, il dramma della sconfitta militare del Paese, della disgregazione dello Stato, della contrapposizione tra il regno del Sud e la repubblica di Salò e del conflitto armato tra fascisti e antifascisti. […] In una situazione di estrema precarietà dell’ordine pubblico quale quella del ’46, il ministro Romita aveva ritenuto di dovere fare prevalere, su un antifascismo di principio, l’esigenza di una rapida utilizzazione di tutte le competenze professionali immediatamente disponibili, dal personale di carriera già in servizio durante il ventennio, a quello ausiliario la cui assunzione era stata disposta di recente […]”. <597
Il quadro giuridico esistente e utilizzabile era il TULPS e il c.p. Rocco, che si rifacevano a loro volta a una legislazione ancora più antica: “Secondo la tradizione giuridica italiana, l’ordine pubblico che la polizia era chiamata a difendere è da intendere come ‘il regolare andamento e il buon assetto del vivere civile’. Questa definizione, che lasciava amplissimi spazi di discrezionalità alla polizia, era di una vaghezza tale da poter essere utilizzata senza sostanziali cambiamenti dall’Italia liberale, dal regime fascista e dalla repubblica democratica. È da sottolineare, inoltre, che quello di ‘ordine pubblico’ non era un concetto puramente teorico, ma al contrario d’immediata applicabilità pratica”. <598
Abbiamo già rilevato in questa sede come la legislazione fascista sopravvissuta alla Resistenza sia stata utilizzata, dal dopoguerra al centrismo, in contrapposizione alla Carta costituzionale. Bisogna aggiungere che il prevalere dell’ordine pubblico sui diritti civili e sindacali non sia però un’invenzione del fascismo, ma che la stessa giurisprudenza consolidata dalla magistratura liberale poneva un serio limite alle libertà politiche e di espressione in nome appunto della coesione sociale e del quieto vivere civile, arbitrariamente intesi. Su questa tradizione si innestò e portò all’estremo il Testo di pubblica sicurezza fascista: “La nozione dell’ordine pubblico sulla quale si basava la legislazione fascista andava ben oltre l’ordine pubblico ‘materiale’, generalmente inteso come ‘garanzia della sanità, dell’incolumità pubblica e del pacifico svolgimento delle attività sociali’, estendendosi fino a comprendere l’ordine pubblico ‘ideale’, ‘quale strumento di omogeneizzazione del pluralismo sociale alla luce di determinati valori’. Nei casi in cui l’armamentario messo a disposizione non fosse bastato alla difesa dell’ordine pubblico, il TULPS concedeva alla polizia il potere di operare ‘anche in deroga alle leggi vigenti’ (art. 216), cioè di agire contra legem, oltre che praeter legem”. <599
A proposito dei codici come ‘canale di continuità’, ci ricorda Pavone che non si trattava solo della legislazione penale e di pubblica sicurezza, ma anche del codice civile e di procedura civile, pilastri del quadro entro cui si svolgono i rapporti personali ed economici socialmente rilevanti. <600
In questo contesto normativo, si inseriscono le tre fasi della riorganizzazione delle forze dell’ordine e la loro azione sul territorio che, come emerge dalla conferma della priorità dell’ordine pubblico ‘ideale’ nello svolgimento del proprio ruolo, è conforme al sempiterno principio del partito moderato di modellare la società. Le tre fasi sono state riassunte da Della Porta e Reiter in: – disorientamento e delegittimazione (luglio 1943-estate 1945): il doppio binario dello sbandamento interno e della mancanza di credibilità esterna inizia sotto il governo Badoglio e prosegue nei primi mesi del dopoguerra, quando l’azione di polizia oscilla tra la funzione militare e repressiva (come testimoniato dalla strage di Palermo del 18 ottobre 1944 <601) e l’incapacità di intervento: ‘queste difficoltà devono essere riportato soprattutto al disorientamento della polizia, in assenza delle vecchie certezze, insicura su come e quando intervenire, e alla sua delegittimazione che faceva mancare quella accettazione della sua funzione indispensabile per l’efficacia dei suoi interventi’ <602; il secondo aspetto raggiunge il suo apice con il caso Roatta, ovvero la fuga del generale fascista, ex dirigente del Servizio informativo militare – SIM, che screditò in particolare l’Arma dei carabinieri cui era affidata la custodia; – riorganizzazione secondo il modello tradizionale (estate 1945-febbraio 1947): nonostante diverse proposte di riforma radicale delle forze dell’ordine <603, provenienti da più parti, il governo nella figura del ministro Romita propese al contrario per la conferma della militarizzazione, centralizzazione, integrazione dei precedenti corpi di polizia (compresa anche la polizia ausiliaria, a maggioranza composta da ex partigiani), istituzione di vecchi (casellario politico) e nuovi (la celere) strumenti di vigilanza e azione; – riorganizzazione secondo il principio della ‘guerra civile fredda’ (maggio 1947-luglio 1948): con Mario Scelba ministro degli Interni dal febbraio ’47, il modello tradizionale è declinato in chiave anticomunista per la Guerra fredda; non solo viene invertita l’epurazione, diretta contro gli appartenenti al movimento partigiano, ma la riorganizzazione tattica e politica dei corpi di polizia è organizzata in chiave offensiva, preventiva e informativa: i pilastri dello ‘scelbismo’ come stagione dell’ordine pubblico in Italia (e come lascito ai periodi successivi).
Soffermiamoci su alcuni elementi che emergono in queste tre fasi organizzative a cavallo tra guerra e dopoguerra, che chiamano direttamente in causa la continuità. Ha notato infatti Patrizia Dogliani che “se di continuità si deve parlare, occorre prendere in esame non solo il trapasso dal fascismo alla Repubblica, ma anche il Novecento nel suo complesso. Di fatto, il passaggio di consegna nel controllo dell’ordine pubblico dall’esercito regio alla Ps era già stato avviato in epoca liberale; il fascismo completa l’operazione: scioglie la Guardia regia nel 1922, ricostruisce il corpo delle guardie di Ps tre anni più tardi e lo affianca alla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (Mvsn), in un discorso di maggiore vigilanza e repressione nel paese, ma anche di una divisione dei compiti che avrebbe facilitato il controllo dall’alto di chi controlla. Sottratta a questa giurisdizione era rimasta l’arma dei carabinieri: polizia militare, dunque di appartenenza e obbedienza ai comandi militari, tradizionalmente fedele alla corona”. <604
A fianco quindi a una riorganizzazione della PS che richiede i suoi tempi, è ai carabinieri che ci si affida maggiormente, perché considerati non solo più strutturati, ma anche più affidabili in quanto liberi dal possibile ‘inquinamento comunista’ di cui soffriva la polizia al centro-nord; questa dualità di fondo, rappresentata da due corpi con comandi separati, ma con funzioni e giurisdizioni territoriali pressoché uguali, ed entrambi sottoposti nel corso degli anni successivi a una corsa agli armamenti che ne aumenterà la caratterizzazione militarista, sarà una delle particolarità della militarizzazione dell’ordine pubblico italiano (cui poi si aggiungerà, nei decenni successivi, anche il corpo celere della Guardia di Finanza). Soprattutto, i carabinieri, parimenti all’esercito, vengono toccati molto poco anche dall’inizio dell’epurazione, proprio per la considerazione che se ne aveva come di un corpo patriottico e imparzialmente dedito alla sicurezza nazionale; mentre è giusto ricordare che non solo le polizie create direttamente dal fascismo (OVRA e MVSN), ma tutti i corpi avevano partecipato alla repressione politica del Ventennio.
Il disorientamento che subiscono i molti apparati di sicurezza con la caduta di Mussolini è dovuto a un fattore centrale, ignorato volutamente in chiave di depoliticizzazione della loro opera durante la dittatura: “Mussolini era stato uno dei più prolifici innovatori della storia italiana nel campo della sicurezza interna e aveva inciso profondamente anche sull’organizzazione delle forze dell’ordine: lo scioglimento della guardia regia, la statalizzazione della milizia fascista, la rifondazione del corpo delle guardie di Ps (alla quale si riferiva la data dell’annuale festa di polizia, il 18 ottobre mantenuta fino agli Sessanta), il nuovo testo unico delle leggi di Ps e, infine, la creazione dell’OVRA, portarono a un sistema di polizia adatto per un regime che, più che della opposizione di piazza, doveva preoccuparsi di un antifascismo clandestino. […] L’identificazione politica della polizia con il regime, del quale essa era stata uno degli elementi portanti – difficilmente bilanciabile dai contributi di carabinieri e polizia alla lotta per la liberazione – era diffusa e diretta […]”. <605
Come già anticipato, la defascistizzazione si riduce sostanzialmente a (presunta) depoliticizzazione degli apparati di sicurezza e dello Stato. Già il governo Badoglio aveva mostrato questa volontà di presentare la neutralità e il carattere amministrativo degli apparati più impresentabili del regime: “Nelle prime informazioni sulle forze di polizia italiane che il governo Badoglio fece arrivare agli alleati, si affermava che né la polizia né l’OVRA erano mai state sotto il controllo diretto del fascismo, ma al contrario avevano mantenuto inalterata la loro indipendenza, e per questo erano state attaccate e vittimizzate dai federali fascisti. […] il loro bersaglio principale erano stati i comunisti, presentati come direttamente dipendenti da organizzazioni sovietiche, che invariabilmente passavano dalla propaganda al terrorismo. Si affermava inoltre che l’OVRA, anche se fondata per la repressione dell’antifascismo, si concentrava sulla repressione del comunismo e sulla difesa delle istituzioni dello stato e della monarchia”. <606
Immagine che muove, ammettiamo pure sinceramente, Romita nel momento in cui decide non di riformare gli apparati di polizia, ma solo di riorganizzarli: “Così, prima ancora che il guardasigilli Togliatti decretasse ufficialmente la fine dell’epurazione, Romita aveva deciso di riammettere in servizio ‘tutti i funzionari, salvo qualche eccezione assolutamente trascurabile’, in base alla considerazione ‘che il funzionario di polizia esegue, senza potersi rifiutare, gli ordini che riceve dal ministro degli Interni che, pertanto, nell’esecuzione di quegli ordini non è responsabile di persona, a meno che l’esecuzione medesima non costituisca reato’.” <607
Interpretazione culturale alla base anche di quella ricostruzione storica che vuole Stato e regime fascista separati nel corso del Ventennio, commentata in maniera seria da Pavone a proposito delle parole di Carlo Scorza, ultimo segretario del Partito nazionale fascista, che in un memoriale inviato a Mussolini il 23 giugno 1943 lamentava l’assenza di collaborazione da parte della burocrazia statale con il PNF: “Le parole di Scorza testimoniano in realtà lo scollamento in atto, sotto la pressione della disfatta militare, fra i tradizionali ‘corpi’ dello Stato, che tentano di gestire in proprio la crisi come garanti di continuità, e il ‘regime’ di cui quelli erano pur stati ingredienti essenziali. La distinzione fra Stato e regime è stata posta – com’è noto – da Alberto Acquarone […] ha infatti illustrato come l’apparato statale conservasse netta prevalenza su quello del PNF (emblematica la supremazia del prefetto sul segretario federale), e come il regime si reggesse sull’equilibrio fra la dittatura personale e demagogica di Mussolini, il partito e gli organismi che ad esso facevano capo, la monarchia, gli altri tradizionali vertici della struttura statale e, non ultima, la Chiesa”. <608
Tuttavia, con le magistrali parole dello storico che ha vissuto da partigiano gli eventi storici di cui tratta, nota criticamente: “È singolare come la distinzione fra politica e amministrazione, sempre così difficile da cogliere, venga riproposta quale canone interpretativo proprio di uno di quei periodi di sconvolgimento che insegnano agli uomini – funzionari amministrativi compresi – l’impossibilità di essere politicamente neutrali. Quando la partita era ancora in corso, l’alibi dell’ordinaria amministrazione comunque necessaria fu largamente usato per tessere la trama dei doppi giochi dell’oggi e dei trasformismi del domani. La tesi di una pubblica amministrazione tanto neutra da non venir compromessa neppure in periodo di guerra civile avrebbe poi avuto un ulteriore duplice esito: da una parte sarebbe stata usata come corrosivo dell’epurazione, dall’altra avrebbe favorito il disinteresse degli antifascisti verso la riforma dell’amministrazione stessa”. <609
Ed è proprio questo il punto: ammettendo comunque sempre la presenza della volontà, c’è una cultura politica alla base di questa continuità di lungo periodo, che precede il fascismo e che, sotto la pretesa neutralità, ha però una ben precisa immagine negativa della politica del conflitto portata avanti dalle classi subalterne, storicamente escluse dalla macchina statale e dal governo del paese.
Questo particolare è il punto di congiunzione tra l’antifascismo di un conservatore repubblicano come Scelba e il reinserimento di dirigenti degli apparati di sicurezza fascisti nella fase della guerra civile fredda.
[NOTE]
596 Cfr. D. Della Porta, H. Reiter, op. cit., pp. 13-14
597 G.C. Marino, op. cit., pp. 46-47
598 D. Della Porta, H. Reiter, op. cit., pp. 29-30
599 Ibidem, p. 31
600 C. Pavone, op. cit., p. 73
601 Il 18 ottobre 1944 a Palermo era stata indetta una manifestazione di protesta contro il caroviveri e la miseria dilagante: la polizia e il regio esercito, in conformità con il divieto prefettizio di manifestazioni e proteste, aprirono il fuoco sulla folla, causando 90 morti e decine di feriti.
602 D. Della Porta, H. Reiter, op. cit., p. 55
603 In particolare ricordiamo: il progetto di polizia decentrata e sotto controllo regionale, presentato da Giorgio Agosti durante il governo Parri; la proposta degli Alleati per una polizia demilitarizzata e più integrata con la sfera civile; la petizione degli Agenti democratici alla costituente, nel marzo 1947, che richiedeva l’organizzazione della polizia su base strettamente civile; il manifesto del Partito comunista, diffuso per la campagna elettorale del 1946, che richiedeva smilitarizzazione e democratizzazione del corpo di polizia.
604 P. Dogliani, La polizia alla nascita della Repubblica, in P. Dogliani, M.A. Matard-Bonucci, op. cit., pp. 21-22
605 D. Della Porta, H. Reiter, op. cit. p. 52
606 Ibidem, p. 59
607 G.C. Marino, op. cit. p. 47
608 C. Pavone, op. cit., p. 76
609 Ibidem, p. 108
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017

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